Home Festival di Cannes Cannes 2017: Happy End – recensione del film di Michael Haneke

Cannes 2017: Happy End – recensione del film di Michael Haneke

Festival di Cannes 2017: Happy End è uno di quei rari e luminosi esempi di cinema essenziale ma incisivo, che tramortisce senza alcun trucco pirotecnico. Haneke si unisce a Malick e Godard nell’allargare i confini del linguaggio del cinema contemporaneo

pubblicato 22 Maggio 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 06:00

Happy End è un luogo. Non per forza fisico, come la Calais in cui è ambientato; forse un incubo, come avevamo già fugacemente visto in Amour. Questo per dire che la dimensione onirica non è avulsa nemmeno dal recente Haneke, che anche stavolta riesce ad imprimere con forza la matrice del proprio cinema. Ed è un po’ un ritorno alle origini, non solo perché il regista austriaco torna a parlare di una famiglia dell’alta borghesia, come in Benny’s Video, ma anche per quel rigore che però non aliena affatto il tutto dal nostro tempo. Le prime sequenze del film, che si alternato coi titoli di testa, sono interamente girate col cellulare, nemmeno di ottima qualità: mostrano come alcuni trascorrono il tempo, documentando scene inquietanti ed iniziandoci perciò a quel percorso attraverso cui Haneke racconta la famiglia Laurent, disintegrata a dispetto delle apparenze.

È sempre un po’ scomoda l’operazione mediante cui vengono messi in risalto significati che il cineasta per primo non ha voluto rendere immediati, se non addirittura che non ha proprio contemplato, ma è davvero arduo resistere alla tentazione di vederci un discorso ben più ampio rispetto a quanto è immediatamente percepibile in Happy End. Quella di Haneke è una spiazzante, terribile parabola intergenerazionale che ci parla di oggi, usando i linguaggi di oggi. Ancora una volta è un più che settantenne a farsi carico di portare la contemporaneità al cinema lato tecnologia (gli altri, di recente, sono stati Malick e Godard). Thomas, il padre della piccola Eve, si è da poco risposato con Anais, eppure non riesce a fare a meno d’intraprendere questa relazione virtuale con un’altra donna, con la quale si scambia mail parecchio spinte. Ma Haneke non è così ingenuo da premere sull’acceleratore e confinare il mondo che descrive ad una fattispecie, dato che nemmeno nella realtà, per quanto preponderante, è così onnipresente.

Mentre la vicenda si dipana non riusciamo nemmeno a cogliere subito che i personaggi che si muovono davanti alla macchina da presa sono per lo più degli psicopatici, tale è il loro livello d’irresponsabilità, quasi fossero in balia di forze su cui non hanno alcun controllo. E sarebbe stato troppo facile descriverceli senza mezzi termini come dei personaggi negativi, mentre Haneke non spiega nulla, non cerca di risalire al perché dei loro problemi, sebbene la ragione più alla portata stia nella loro condizione economica, nell’aver sempre potuto vivere senza preoccuparsi non solo del necessario ma anche di buona parte del superfluo. L’unica ad aver subito qualche shock è Eve, la sola a manifestare un minimo di buon senso, consapevolezza che infatti la conduce ad un passo dal baratro, malgrado i suoi soli tredici anni.

Happy End è perciò una dark comedy europea sull’Europa, una delle migliori mai sfornate peraltro. In nessun caso viene forzata la mano, lasciando che il surreale o il sopra le righe irrompa scombinando l’accurato equilibrio su cui è riuscito a lavorare Haneke, che qui mostra un controllo ed una padronanza del proprio cinema davvero rari. Voglio dire, in un suo film, compreso questo ovviamente, se la macchina da presa si muove c’è un motivo, se rimane ferma pure; nulla è lasciato al caso, zero.

Quando, per dire, in uno dei momenti in cui ci troviamo nella sfarzosa abitazione di Thomas, assistiamo ad un breve pianosequenza in cui la macchina segue i personaggi non è per mostrarci quest’ultimi bensì gli interni, e c’è un perché. Pochi infatti coltivano il rispetto e dunque l’attenzione che ha Haneke per lo spettatore, per il suo sguardo in particolare, fornendogli tutte le coordinate di cui ha bisogno per ricostruire un intero ecosistema. Per questo in Happy End può finanche permettersi qualche piccolo ma rischioso salto in avanti nel racconto, proprio perché non ci viene dato modo di restare ingolfati da alcun eccesso d’immagini e informazioni per lo più superflue, se non addirittura inutili.

Il modo in cui dosa i toni poi, una delle doti principali del regista de Il nastro bianco, non ha pressoché eguali, ed il film prende la direzione esatta che il proprio regista intende dargli di volta in volta. Tanto che, a differenza che nel recente passato, non ci si deve aspettare il colpo di coda improvviso, l’impennata che destabilizza, mostrandosi anche in questo nient’affatto prevedibile, altro pregio non da poco.

No, l’ultimo lavoro di Haneke ci assesta colpi notevoli senza quasi che ce ne accorgiamo; solo alla fine ci rediamo conto di essere stati tramortiti più e più volte, con un finale che tiene beffardamente fede al titolo, anche qui con un retrogusto umoristico lacerante, le cui ferite richiedono del tempo affinché si rimargino del tutto. Per nulla allineato, anche questo permette ad Haneke di andare quasi in ogni caso a segno, approntando più discorsi senza, da un lato, esaurirli del tutto, mentre dall’altro senza nemmeno lasciare più di tanto in sospeso, come per esempio accade in The Square, altro film mostrato in Concorso quest’anno qui a Cannes.

Ma in fondo è difficile catalogare Happy End. Tale è la maestria del cineasta austriaco, il quale riesce ad attingere praticamente da dove gli pare senza mai farsi limitare dagli elementi che prende a prestito; ed allora la dimensione onirica evocata all’inizio rende questa sua ultima fatica a tratti anche un horror, si badi, non meno violento rispetto ad opere precedenti. La differenza stavolta è che non vi sono gesti inconsulti, esplosioni improvvise, bensì è una violenza più controllata ma non meno devastante, che passa dal disagio per una scena ambientata in un locale dove si canta al karaoke, o l’ennesima uscita fuori di testa del figlio di Anne (Isabelle Huppert), il quale invita deliberatamente alcuni immigrati africani ad un pranzo altolocato, tra l’incredulità di tutti.

Per Haneke, a quanto pare, il Vecchio Continente è oramai al capolinea. La sua Cultura, la cosiddetta Civiltà, non funge più da argine, garanzia di crescita e stabilità così come si è voluto credere dal secondo dopoguerra in avanti, quando si pensò di apportare cambiamenti sostanziali dopo due guerre infami e spossanti. L’Happy End di cui al titolo altro non costituisce che la resa; la resa di un’intera generazione, consapevole di aver sbagliato, o forse no, eppure convinta di lasciare a chi gli sopravvivrà un mondo di gran lunga meno sopportabile di quello che credevano di stare costruendo o in cui semplicemente hanno vissuto. Obnubilati da un benessere fittizio, artificiale fino in fondo, da una prosperità che si immaginava esponenziale, come se si sarebbe giunti al punto in cui saremmo diventati tutti Re, ciascuno nel proprio Regno, non ci siamo accorti di come le cose siano precipitate.

Haneke intercetta meravigliosamente la parabola discendente di questa società su cui la Storia non potrà essere clemente, se non altro perché dalla Storia ha voluto tirarsene fuori, credendo ingenuamente di poterlo fare. Un’ingenuità che ci sta già costando caro. Ogni personaggio di Happy End è un personaggio a suo modo deprimente: il figlio di Anne, Pierre, è un trentenne o giù di lì buono a nulla, incline al bere, a cui la cosa che riesce meglio e autocommiserarsi, finendo con l’odiare sé stesso e perciò coloro che gli stanno accanto. Quest’odio verso noi stessi, ci suggerisce Haneke, è ciò che ci sta uccidendo poco alla volta ma non in maniera meno crudele. Ecco perché quando gli immigrati arrivano a quel pranzo patinato, loro diventano un problema secondario: le bombe le abbiamo in casa ed il conto alla rovescia è già partito.

Il nonno (Jean-Louis Trintignant), avendo capito che umanamente è troppo tardi per sperare che l’allarme rientri, preferisce uscire e non vedere quanto sta per accadere; ultimo gesto irresponsabile di una lunga serie di gesti del medesimo segno. La domanda, angosciante, rimane… quando avverrà l’esplosione, in quanti se ne accorgeranno? Per questo non ci sono botti in Happy End, e chi non coglie e dunque recepisce l’oppressione di quest’ultimo lavoro solo perché le prime avvisaglie non fanno rumore, sono proprio coloro che più di tutti legittimano, anzi confermano l’urgenza di un film come questo. Addentro nella nostra epoca ed attuale come pochi negli ultimi anni, sia quanto alla forma che quanto ai contenuti, Haneke sforna un nuovo, imprenscindibile tassello della sua già ragguardevole filmografia.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]

Happy End (Francia, 2017) di Michael Haneke. Con Isabelle Huppert, Mathieu Kassovitz, Jean-Louis Trintignant, Fantine Harduin, Dominique Besnehard, Nabiha Akkari, Jack Claudany, Hassam Ghancy, Jackee Toto e Franck Andrieux. Concorso.

Festival di Cannes