Cannes 2017: la critica ai tempi di Netflix e Twitter
Festival di Cannes 2017: al di là di commenti condensati e ad effetto, come ne esce la critica da questa edizione del Festival di Cannes, una delle più significative degli ultimi anni?
Che Cannes sarebbe se l’epilogo non generasse il suo quantitativo di critiche e/o recriminazioni? Eppure quest’anno non è stato possibile ed il perché è presto detto: abbiamo assistito al Concorso più divisivo degli ultimi anni, ché detto così pare anche interessante. Anni in cui uno o due titoli hanno sempre messo d’accordo gran parte degli intervenuti, salvo poi non essere premiati o premiati “male” (mi vengono in mente Mommy e Carol). A ‘sto giro a chi volevi fare lo sgarbo? L’esodo da Cannes ha visto visi imbronciati o per lo meno smarriti, di gente che di quest’ultima edizione, lato Concorso, non ne vorrà più sapere; perciò figurarsi se il premio ad uno piuttosto che a un altro stimolerà alcuno sdegno.
Ecco, mi piace partire da qui, dallo sdegno. Alcuni, non a torto, guardano a questi critici capaci pure di provare sentimenti con malcelato disprezzo: «chi sono questi per dirsi sdegnati per dei riconoscimenti dati da gente del settore?». Ok, sdegnare è brutto, ma è dettato da un moto la cui assenza è di gran lunga più mortificante, ossia la passione: quando c’è disinteresse, o qualcosa di simile, vuol dire che chi ha messo su un’edizione non ha ottenuto quanto sperava di ottenere. Persino in quella dell’anno scorso, altro Cannes discusso, con fischi illustri (non furono risparmiati Assayas, Refn, Dolan…), s’è avvertita molta più vitalità, proprio perché almeno sembrava che interessasse qualcosa a qualcuno. Il motivo era sostanzialmente Toni Erdmann, titolo a cui la critica s’è appiccicata subito senza mollare la presa fino alla fine, per poi sprigionare il proprio disappunto dopo aver appresso che Maren Ade se ne sarebbe davvero tornata a casa a bocca asciutta… giuria senza senso dell’umorismo.
Quest’anno chi ha occupato quel posto? Quale film la critica ha coccolato così tanto da volerlo vedere trionfare senza se e senza ma? La verità? Nessuno. E questo è tutto. Non vorrei limitare la faccenda ad una questione di tifo, tanto più che mi pare di avere già chiarito che avere dei favoriti e promuoverli sia cosa se non buona senz’altro salutare, almeno quanto alle ragioni che spingono a farlo. Mi pare però che in mancanza del titolo da portare in braccio fino alla Cerimonia di chiusura, larga parte della critica abbia preferito raccontare qualcosa che non corrisponde esattamente al vero.
Molti di noi abbiamo letto quanto andava filtrando attraverso i vari social ed è inutile fare spallucce: viziata quanto si vuole, la percezione che ne viene fuori è quasi sempre indicativa rispetto all’opinione generale, quella che, per intenderci, stabilisce cosa vada detto e cosa no. E sapete cosa diceva questa voce? Concorso moscio, edizione inutile, film modesti etc. Alcune di queste sommarie sentenze mi è parso fossero dettate anche dall’immancabile invidia, quella cioè di dover seguire il Festival più importante del pianeta dalla scrivania di casa o ufficio, ma è vero pure che nessuno ha stravolto il feedback che è stato trasmesso dalla Croisette. La critica ha atteso il proprio film fino a un certo punto; quando ha capito che questo film non sarebbe mai arrivato, e non c’ha messo molto, allora si è lasciata andare: edizione pessima, la peggiore da anni.
Mai come quest’anno chi scrive ha infatti avuto la chiara impressione di una critica stanca, svogliata, dunque facilmente irascibile. «Abbiamo visto tanto, troppo in vita nostra… che sono ‘ste mezze calzette?! Dovete darci di più, sennò vi ammazziamo!», mi è sembrato di sentir dire al critico collettivo. Ed è evidente che non valga per tutti e ciascuno, che tanti abbiano fatto il loro dignitoso lavoro, che si siano prodotti in pezzi pregevoli o che addirittura, come Peter Bradshaw del Guardian (l’unico dei critici blasonati il cui tabellino di fine Festival riportava svariate Palme), siano stati anche troppo generosi. Eppure sono quelli che hanno fatto meno rumore o che semplicemente non sono stati assecondati, posto che poi andrebbero fatte delle distinzioni tra critica angolofona, francofona o italiana, per esempio.
Però, ecco, questa è l’atmosfera entro la quale è maturato il rigetto verso titoli che sinceramente non meritano così tanta indifferenza o severità. Capisco che ci si aspetti il massimo da una vetrina come Cannes, ma se un film non ci fa sballare non è che vada cassato come robetta. Altro problema, che trascende il contesto ma che nondimeno lo investe con discreta forza: mi pare che la critica stia diventando sempre più emotiva. Non mi riferisco al limite, connaturato, di dover valutare un film in base alla prima impressione: per quanto discutibile, è il gioco di tutti i Festival, anzi della pratica di chi scrive recensioni in generale. No, parlo del fatto, a dire il vero molto contemporaneo, di basare il proprio giudizio su quanto quella determinata opera ci ha trasmesso sul piano per l’appunto delle emozioni. Anche qui, non un male di per sé. Mi riferisco semmai alla soperchieria con qui tale criterio si sta imponendo su tutto il resto: si tratta infatti di una sorta di sentimentalismo camuffato, pericoloso, un eccesso d’entusiasmo che legittima una chiusa come «Can Lynne Ramsay please direct all movies, forever?» (potreste cortesemente far girare a Lynne Ramsay tutti i film da qui in avanti, per sempre?) alla recensione di una delle critiche più in auge del momento, non senza motivo peraltro.
Capisco il periodo storico in cui ci troviamo, ma davvero… in quale momento certe dinamiche da social hanno preso il sopravvento sull’approccio a certe materie? Davvero per farsi ascoltare, per generare dell’interesse genuino, s’ha da manifestare, ostentandolo quasi, un atteggiamento così adolescenziale? Certo, il fenomeno riguarda soprattutto i critici più giovani, ma l’habitus comincia ad essere condiviso, avallato anche da certe vecchie leve. Quando si disse, per esempio, che un film come Mad Max: Fury Road fosse un videogioco, in tono ovviamente dispregiativo ed in parte anche canzonatorio, si stava facendo tutt’al più del sensazionalismo, fenomeno che attiene più al giornalismo che alla critica (o almeno dovrebbe).
Nell’epoca del catchphrasing spinto, imposto ed ampiamente accettato, che posto c’è ancora per la critica? Twitter ha vinto, forse non a livello commerciale (so poco di certe cose), ma senza dubbio a livello culturale; la sua è stata una vittoria schiacciante, per certi versi definitiva – per dire, Evan Williams, co-fondatore di Twitter, bontà sua, ha finanche chiesto scusa per l’elezione di Trump. I 140 caratteri hanno messo in ginocchio la critica sparandole alle gambe, perciò fatica a muoversi. Ma non è solo questione di quantità. Alla stringatezza si è aggiunto un elemento ancora più limitante, di gran lunga più nocivo del numero di caratteri, ossia l’immediatezza: non quanto ma in quanto tempo, parlare di film (come di tutto il resto) è diventato un esercizio tipico di chi sforna haiku, solo che la poesia qui ha poco a che fare. Ed il destino, la portata di un Festival andrebbero stabiliti in base a queste frecce avvelenate che piovono sui nostri feed con una velocità disarmante, senza mai smettere?
Mi rendo conto di aver messo piede su un campo minato e che seguendo questa traiettoria c’è il rischio di perdersi. Solo che questa tendenza dannosa rischia di precluderci troppo, come già sta accadendo. Perciò, giusto per tornare in carreggiata, si finisce col doversi riciclare aforisti per amore di bazzicare la critica, di dare contezza di un film, di una corrente o di un fenomeno, quand’anche aforisti non si è. In un mondo ideale, come diceva Chesterton, tutti i libri sono libri di aforismi; poi però vai a vedere quanto ha scritto il celebre scrittore inglese e ti rendi conto che lui per primo sapeva che quel mondo non è il nostro.
Ad ogni modo, è interessante notare come parte della critica, nella diatriba tra Cannes e Netflix, si sia schierata con quest’ultimo in maniera non meno sconsiderata ed ideologica di certuni che hanno difeso le Festivàl e fischiato ai titoli di testa della surreale prima di Okja in Lumière. Ci vedo un nesso, magari inconscio, tra il desiderio di alcuni nel vedere la nota piattaforma di distribuzione spuntarla rispetto ai canali tradizionali e questa avversione ad un’edizione meno esplosiva, certo, ma che nondimeno merita di essere esaminata, anche e soprattutto nelle sue deficienze. Come ho già avuto modo di scrivere nelle scorse settimane, il vero problema di questo scontro è che un dibattito non c’è stato, che da una parte e dall’altra vi sono interessi legittimi che però rimangono avvolti da una sorta di discrezione che a questo punto davvero si fatica a comprendere.
Il sistema rappresentato da Netflix è oramai realtà, una di quelle che finanche trascende la stessa azienda americana, e dinanzi alla quale il circuito festivaliero non può più glissare. È evidente che il venire meno della sala, improbabile ma mai come oggi ipotizzabile in un non troppo lontano futuro, pone davanti una sfida non da poco per un Festival, quale che sia: avrà ancora senso, per dire, il Festival come luogo fisico, materiale, quando ormai il mercato e/o gli spettatori avranno in larga parte abbracciato tipologie di distribuzione che rendono obsoleta la sala?
Sia chiaro, la sala è tempio ed in quanto tale non soffre obsolescenza; provate ad immaginare una qualunque religione senza i suoi riti, la sua liturgia e dunque i luoghi in cui tutto ciò deve svolgersi, che non possono essere profani ma sacri, non garage ma chiese. Quanti però hanno percezione di quanto appena scritto? E quanto ci si metterà a convincerci che quanto appena evidenziato siano solo chiacchiere da nostalgici? Toccherebbe andare a monte e chiedersi chi ha maggiormente a cuore, al netto degli immancabili interessi, quella cosa che chiamiamo Cinema; non i film, che possono anche non rientrare in tale categoria. Credere che quesiti di questo tipo riscaldino solo certi parrucconi cresciuti nel periodo del boom economico sarebbe un errore grossolano: il problema non può più essere ignorato.
Né si può essere tacciati di alcun rigurgito luddista o che so io, perché il discorso non attacca. Si tratta d’interrogarsi su un passaggio che può profondamente cambiare l’industria, se possibile snaturando la Settima Arte; non sarebbe la prima volta, è chiaro, ma bisogna capire fino a che punto tale processo sia compatibile col mantenimento di quelle specificità che ci consentono di definire una cosa in un modo piuttosto che in un altro. Non è un giudizio di merito bensì epistemologico, su cui è lecito e a questo punto doveroso attardarsi; verrano fuori sciocchezze, affermazioni che a posteriori sembreranno matte, ma che sono indispensabili ai fini di quel processo che ha nel metodo dell’esclusione una delle forme privilegiate per acquisire maggiore consapevolezza su un dato fenomeno.
Fermiamoci qui. Chiediamoci però… in tutto questo la critica che ruolo ha? E soprattutto, come lo sta svolgendo? Perché l’impressione è che, a dispetto delle file interminabili prima di tante proiezioni, la partecipazione ad un Festival si stia riducendo al solo «io c’ero», il che ci può stare, purché non sia la ragione principale. Altri, ma sono pochi privilegiati, ci vanno perché le rispettive testate ce li mandano, non di rado persino contrariati. Non vorrei però che una parte di questa generazione di critici (che ne abbraccia più di una a dire il vero) stesse diventando insofferente poiché ritiene di aver visto troppo e meglio di altri; come a dire «inutile che mi muovo da casa per vedere un brutto film, quando posso scoprire che è brutto stando comodamente seduto sul divano», un po’ per pigrizia, un po’ convenienza, un po’ perché ci crede per davvero.
Eppure i critici per primi dovrebbero riconoscere l’importanza della sala, l’implicita coercizione a fare nient’altro che osservare quello schermo e sforzarsi di capire quanto sta accadendo al suo interno. Il sospetto è che molti di loro stiano gradualmente diventando degli «animali da salotto», assumendone gli atteggiamenti. Basta guardare ai sintomi: sbuffi, cellulari accesi, insofferenza a stare fermi e via discorrendo. Tutte fattispecie che derivano dall’abitudine alla libertà che ti concede il poter scegliere da te come, dove e quando, con tutte le tremende distrazioni che ciò comporta.
Uno spettatore così diventa per forza di cose svogliato, poco incline all’attenzione, non importa che eserciti il ruolo del critico o meno; specie quando davanti si trova qualcosa di ostico, meno familiare, da cui non ricava qualcosa d’immediato (quasi sempre di stampo emotivo, come scritto sopra), intenso a tal punto da tenerlo “occupato”. Va da sé che qui mi limito alle implicazioni comportamentali inerenti alla fruizione, volutamente sorvolando sull’importanza in sé di un pannello gigante ma anche sulle condizioni ideali per vedere un film, ambientali oltre che visuali, e che chiaramente hanno delle ripercussioni notevoli sui modi attraverso cui facciamo esperienza del mezzo.
Viene però da chiedersi quanto siano attendibili, fino a che punto insomma sia il caso di fare affidamento su personaggi che antepongono sé stessi all’opera che sono chiamati ad esaminare e solo dopo, in seconda battuta, valutare. A prescindere dai gusti, notiamo che, specie in ambito anglofono, alcune tra le firme più quotate optano per una prosa elegante, densa e non di rado pomposa per accostarsi alla critica di un film che vuole elevarsi a Letteratura. E non che sia un male scrivere bene, con proprietà di linguaggio, quale che sia l’idioma; ma a forza di farsi belli si rischia di doverlo sottolineare, e siccome chi ci legge ha bisogno di certi input, ecco allora certe uscite da groupie o da rotocalco.
Invece sarebbe positivo un contributo più equilibrato da parte della critica, specie in un periodo delicato come quello che stiamo attraversando. Un contributo che vada al cuore di certe dinamiche, e che forse solo da questa parte può arrivare, sebbene le connaturate asperità dell’approccio di un critico è bene che vadano temperate dalla cooperazione con figure avulse al suo status. Una critica che non si percepisce significativa ai fini del discorso, preferendo il riscontro immediato di un haiku nemmeno tanto ambiguo ad un lavoro più serio, ben meno apprezzato e perché no estenuante, merita i margini che si è scelta lei stessa.
Poi però mi ricordo che chi scrive recensioni si occupa di qualcos’altro; qualcosa che sempre meno ha a che vedere con la critica, vale a dire… scrivere recensioni. Ed allora si è portati a credere che non abbia molto senso tentare di illustrare come mai la presunta democraticizzazione dello streaming e dell’on demand non sarà mai conciliabile con i meccanismi di selezione di un qualunque Festival; anche quando quest’ultimi fossero viziati da logiche che non sempre hanno a che vedere coi reali meriti di una o più opere.