Cannes 2017: The Killing of a Sacred Deer – recensione del film di Yorgos Lanthimos
Festival di Cannes 2017: l’antico irrompe nel nuovo, capovolgendolo, nel secondo film in lingua inglese di Yorgos Lanthimos. Più compatto rispetto a The Lobster, The Killing of a Sacred Deer cavalca la paura attraverso il mistero
Il professor Steven Murphy (Colin Farrell) s’incontra spesso col giovane Martin (Barry Keoghan), sebbene non si capisca esattamente cosa leghi i due. Ora sono in un parcheggio che discutono, ora il dottore regala al ragazzo quell’orologio di cui gli ha parlato un collega. The Killing of a Sacred Deer si apre con un cuore aperto, letteralmente; Steven sta infatti eseguendo un intervento di chirurgia. È da lì che ha inizio tutto, tanto per la vicenda che lo coinvolge con Martin, quanto per il film stesso? Un cuore che pulsa, in qualche modo emblema o per lo meno rimando al concetto di sacrificio, rito sacrificale.
Attinge alla mitologia l’ultimo di Yorgos Lanthimos, che alla sua seconda opera in lingua inglese trova quella quadratura che al seppur notevole The Lobster mancava. Questo è più compatto, non risente di alcun vero e proprio sbalzo o squilibrio, mentre in quello precedente tale è lo spessore della prima parte che la differenza con la seconda salta all’occhio subito. Stavolta il regista della new wave greca concentra l’insolito, il soprannaturale, l’inspiegabile, tutto in un solo punto ed allora il racconto scorre senza intoppi. Tuttavia è evidente che l’interesse di Lanthimos sta nel creare un’esperienza, stuzzicando lo spettatore per vie che non hanno a che vedere con la mera esposizione narrativa.
The Killing of a Sacred Deer grossomodo sta a questa edizione di Cannes come Under the Skin stava nel 2013 a quella di Venezia: un film disturbante, di cui avverti la forza sebbene non subito riesca a dispiegarla a dovere. Un film a cui insomma va dato tempo, che ha quindi bisogno di crescere; e crescerà. Un horror che flirta col mistero, con certi racconti e credenze che stanno alla base della nostra Civiltà; e non è un caso che a recuperarli sia proprio un greco, il quale in questo caso riesce pure a trasporli mantenendone intatto il carattere spaventevole, agghiacciante. Sulle teste di questi personaggi aleggia il fato ineluttabile della tradizione ellenica, quella forza oscura con cui non si può venire a patti ma che va assecondata, senza se e senza ma.
Quando Steven comincia ad acquisire consapevolezza di questa necessità, dapprima prova ad opporvisi, contrastarla, perché la cultura a cui appartiene gli ha insegnato che non esiste il destino o che quantomeno non lo si subisce, in nessun caso: quante volte abbiamo sentito in vita nostra la frase «il destino è quello che ci creiamo noi stessi»? Ebbene, sappiamo che gli antichi greci non la pensavano esattamente così, ed è come se un mondo antico tanto quanto quel glorioso popolo che si affidava ai suoi dei, venerandoli e umanizzandoli all’inverosimile, si fosse da un momento all’altro riversato sul nostro. Un irrompere in crescendo, inizialmente discreto, prima di manifestarsi in tutta o quasi la sua veemenza.
C’è in fondo qualcosa finanche di pasoliniano in questo ingresso prepotente dell’inquietante Martin nella famiglia Murphy, sebbene, a differenza che in Teorema, non tutti vengono travolti dal fascino dell’instabile quantunque accattivante ragazzo. Lanthimos si muove bene e ci depista sino alla fine, quando improvvisamente riesce ad insinuare il dubbio: e se quanto è accaduto sin lì non fosse direttamente colpa di Martin? Quando infatti Steven comincia ad allontanarsi dal giovane amico per via della deriva che il rapporto ha preso, quest’ultimo coinvolge i figli del dottore, in un modo inaspettato, non semplicemente pacifico, ma senza quasi avvicinarsi loro. La figlia primogenita Kim ed il più piccolo Bob cominciano a sperimentare strani sintomi, dinanzi ai quali la medicina non può fare alcunché, visto che, sottoposti agli esami più disparati, i due ragazzini risultano in ottima salute. Una reazione psicosomatica? Una maleficio? Non è dato saperlo, ed è giusto così.
Via via sino all’epilogo che consolida The Killing of a Sacred Deer quale tragedia, entro il cui alveo risplende e si fa film. E come sempre accade in quest’ambito, al protagonista, volente o nolente causa dei propri stessi mali, viene solo lasciata l’illusione delle scelta, senza però risparmiargli il fardello di averla dovuta prendere. Il giovane Barry Keoghan ha il viso giusto, incarnando molto bene l’aria intraducibile, perciò inquietante, da cui insomma ti aspetti di tutto, specie il peggio. Ed il fatto che questo peggio non arrivi da lui direttamente, beh, rende Martin un personaggio ancora più spaventoso, disturbante.
Come disturbante è quest’ultimo lavoro di Lanthimos, che pur adottato dal mondo anglofono non si dimentica delle sue radici e riesce a scuoterci, a tratti rivoltarci proprio. Un sottile maltrattamento al quale non tutti sono disposti a farsi sottoporre. Pazienza. Ciò che si riceve in cambio non è la mera sofferenza per la sofferenza, bensì un tipo di cinema i cui limiti vengono compensati dalla particolarità dell’offerta, debitrice in questo caso tanto a Kubrick (certe carrellate ed inquadrature vengono da lì) quanto ad Haneke. Senza però fermarsi lì, al mero scimmiottamento, come se il regista greco non avesse altro da dire o farci sentire. Invece ce l’ha; ce l’ha eccome.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”8″ layout=”left”]
The Killing of a Sacred Deer (Regno Unito/USA, 2017) di Yorgos Lanthimos. Con Nicole Kidman, Alicia Silverstone, Colin Farrell, Bill Camp, Raffey Cassidy, Barry Keoghan, Sunny Suljic e Denise Dal Vera. Concorso.