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Cannes 2017: voti e considerazioni, tra apatia e piccoli schermi

Festival di Cannes 2017: tiriamo le somme in merito all’edizione appena conclusasi. Quella dello scontro frontale con Netflix, che però ha nello smartphone il proprio oggetto feticcio. Un commento alla premiazione e al Festival nel suo insieme, più tutti i voti ai film visti

pubblicato 29 Maggio 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 05:39

Una delle edizioni più apatiche degli ultimi anni la vince uno svedese, Ruben Östlund, che, come certo cinema behavioristico à la Ulrich Seidl o Roy Andersson, alla fine parla anche di quelli che al Festival vi hanno preso parte. E a ben pensarci, al di là dei giudizi di merito, The Square è probabilmente la scelta più sensata, perché trascende il cinema ponendosi un po’ come lezione implicita che questa Giuria, guidata o meno, c’ha impartito un po’ a tutti, critici in primis. Il mondo dell’Arte Contemporanea quale ambiente ideale per mettere in rilievo le idiosincrasie, i danni persino, di un’epoca che è cambiata troppo e troppo in fretta. Paga Östlund la sua ambizione, il voler approntare un discorso troppo ampio e che non a caso qua e là un po’ cede, senza perdite vistose che però ci sono. Eppure l’aspetto del film importante ce l’ha e con ogni probabilità Cannes voleva farsi perdonare l’aver snobbato la Ade lo scorso anno, restituendo ad un’altra commedia, per quanto nera, il maltolto (la Ade era in Giuria quest’anno, insieme a Sorrentino… fate voi).

Spiace per Zvyagintsev, che oramai è il più perdente tra i vincenti. Uno che con The Return, film d’esordio, andò a Venezia e si beccò il Leone d’oro; dopodiché addio Lido per diventare un habitué della Croisette. Da allora, e sono già quattro volte, sempre a premi, ma mai quello “giusto”: tre Concorsi ed un Un Certain Regard, un miglior attore, una migliore sceneggiatura due premi della Giuria. Mai una Palma d’oro, roba che Ceylan se la sta ridendo di gusto. Eppure anche il suo Loveless affonda nell’attualità, di un paese le cui dinamiche, non tutte, cominciano a somigliare maledettamente alle nostre, di noi occidentali. Ed emerge qui uno dei principali leitmotiv di questo Festival, ossia gli smartphone, i cellulari.

Un cellulare viene rubato al protagonista all’inizio di The Square, evento che si rivela decisivo nel prosieguo della trama; la mamma del bambino disperso in Loveless è una maniaca dei social e dei selfie; Happy End di Haneke si apre e si chiude sui filmati di un cellulare e via discorrendo, fino al selfie passato in sordina ma non poi così marginale di Joe ed alcune ragazzine in You Were Never Really Here. Questo Festival, vituperato e offeso in maniera nemmeno poi così fantasiosa, c’ha detto questo, limitandosi a raccogliere le voci di cineasti sparsi per il mondo, che senza far cenno a certe dinamiche proprio non ce l’hanno fatta a girare i loro film. Finanche in Quinzaine troviamo film in cui l’oggetto in esame diventa suo malgrado centrale. In Cuori Puri di De Paolis l’archibugio tecnologico in questione è il filo che, solo, riesce a tenere in contatto i due protagonisti, tanto che la prima volta che conosciamo la ragazza veniamo al contempo a sapere che il cellulare le è stato sequestrato dalla madre; in The Florida Project la mamma della piccola protagonista è un’altra che da quell’aggeggio non si stacca mai, anzi, Sean Baker ha conosciuto l’attrice che la interpreta proprio su Instagram.

Che beffa perciò. E quante chiacchiere inutili. Malgrado la diatriba con Netflix, questo Festival conferma coi fatti ciò pare smentire a parole, ossia che è perfettamente consapevole di come il mondo non stia più cambiando ma sia già cambiato. Grazie proprio ai film che si è scelto non può più ignorare lo status quo; sa che su questi schermi di una manciata di pollici si muovono esistenze, che c’è più vita lì dentro che fuori, se non altro perché, banalmente, quanto accade entro i rigidi confini di quei quattro lati, in piccolo, distoglie da tutto il resto. Che un’edizione del genere conferisca il massimo riconoscimento ad un’opera che s’intitola The Square ha un suo perché quindi, quantunque ironico, e poco importa che gli schermi in questione siano per lo più rettangolari.

Già in sede di recensione evocavo il gioco di parole di cui al titolo del lavoro di Östlund: square come quadrato ma anche come piazza, stando al significato della parola in idioma anglofono. Una piazza immensa, dall’estensione incalcolabile, ma in formato ridotto. Haneke ci mette in guardia, a suo modo, da questa nuova via mediante cui facciamo esperienza della realtà, se non altro facendoci capire a cosa può portare l’adesione passiva a certi meccanismi, che in buona sostanza non cambiano l’uomo ma che ne acuiscono certe sue pessime inclinazioni. Per lo meno in Östlund c’è la consapevolezza che, quando la realtà comincia a mordere sul serio, allora qualche possibilità di destarsi dal torpore c’è ancora; per il regista austriaco di Happy End invece il fenomeno ha già assunto pieghe più catastrofiche, per cui il processo di sovrapposizione è talmente avanzato che alla fine ha già vinto il metodo a cui siamo più esposti (con buona pace dei «è un Haneche minore, che copia sé stesso, non abbastanza violento»… [sic]). Sarebbe a questo punto interessante, qualora non fosse già stato fatto, se venisse commissionato uno studio che grossomodo ci metta al corrente del rapporto tra le quante ore al giorno trascorriamo osservando lo schermo di un dispositivo e quelle che invece ci vedono impegnati in ciò che ci circonda. Dal canto loro, i cineasti si sono già portati avanti, senza aspettare il nudo dato della scienza.

Ma torniamo ai premi, che, in sordina, hanno visto trionfare il film che ho amato di più, ossia quello di Lynne Ramsay: a You Were Never Really Here la sceneggiatura, in comproprietà con The Killing of a Sacred Deer, ed il migliore attore. Premi un po’ così, tra tutti senz’altro quelli che sono più frutto di compromessi: sia il greco che la scozzese devono essere piaciuti a più membri della Giuria, ed allora in questo caso si cerca di collocarli in qualche modo, magari anche nel posto meno adatto. Non fraintendeteci, Joaquin Phoenix merita questo premio, ma è lecito puntare il dito sull’economia poco oculata di questo Palmares, che poteva finalmente sdoganare Robert Pattinson, smarcandolo definitivamente da Twilight. Sarebbe stato bello per lui e giusto per il film di cui è protagonista, ossia Good Time, l’unica vera sorpresa, etimologicamente parlando, di questo Concorso.

Segnale che è stato invece dato assegnando la miglior regia a Sofia Coppola; non scandalosa, anzi, per certi versi opportuna, malgrado non premi realmente la miglior regista di quest’annata bensì la più ritrovata. Sulla medesima linea della Coppola si colloca la Palma a Diane Kruger, che mi pare significhi anche in questo caso più un “bentornata” che altro, anche se qui la scelta è più conflittuale: passi infilare nel Palmares The Beguiled, ma il film di Fatih Akin è stato il peggiore in Concorso oltre che quello che porta in dote le maggiori criticità quanto al tema che tratta e come lo tratta. Perciò, se è vero quello che ha detto sul palco Christian Mungiu in merito alle responsabilità di chi è chiamato a dare un premio, sebbene il regista rumeno abbia presieduto un’altra Giuria, beh, allora voglio sperare che la scelta di inserire Aus dem Nichts sia stata ponderata molto bene.

Telefonato ma non per questo meno significativo il Grand Prix a 120 battements par minute, sebbene mi auguro che da fuori si percepisca questo riconoscimento al film di Campillo in maniera ben diversa rispetto a quanto qualcuno sarà tentato di fare. Confinare quest’opera nell’ambito del cinema queer sarebbe frutto di una miopia marcatamente ideologica, che si rifiuta di vedere altre implicazioni, a mio parere più centrali o se non altro più scomode rispetto alle istanze di un ordinario film a tematica LGBT. Si parla di malati, malattia e quindi di tutti noi, perché il problema vero è come ci relazioniamo a loro, come la società tratta quelli che sono veramente i suoi componenti più deboli insieme a bambini e anziani. E di quanto ci sia bisogno di conoscere certe dinamiche, di non nascondere la testa sotto la sabbia, specie non in un periodo in cui la crociata per le cure alternative sembra essere portata avanti dalle persone più sbagliate di questo mondo.

Mi pare sia tutto. Ah no, c’è il premio per la settantesima edizione, giustamente conferito a Nicole Kidman, anzitutto a compensazione della scippata Palma per la migliore attrice, e poi perché la signora Kidman era presente quest’anno in ben quattro film, di cui due in Concorso: un modo elegante per dire anche a lei bentornata, o magari per ricordarlo a chi negli ultimi anni le è stato addosso come se l’attrice australiana avesse fatto bene a lasciare tempo addietro. Lasciate voi, piuttosto, detrattori senza buon gusto.

Purtroppo non si è avuto modo di bazzicare le altre sezioni nella misura in cui avrei voluto. Tuttavia da queste mie poche incursioni sono riuscito a tornare con dei pezzi davvero interessanti, in alcuni casi i più interessanti. Con buona pace di chi storce il naso alla presenza di qualche puntata di una serie TV ad un Festival, Twin Peaks è senz’altro la cosa migliore che si è vista nelle passate due settimane: c’è più cinema in una sequenza di David Lynch che in ore e ore di lungometraggi che se passassero direttamente in televisione nessuno se ne accorgerebbe. E poi è chiaro che questa terza stagione altro non è che un film di diciotto ore, ché dopo dieci anni di digiuno mi sembra pure il minimo.

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Altro colpo di fulmine, amato e odiato da una parte e dall’altra della critica, senza mezze misure, è stato Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc di Bruno Dumont. Chi scrive se n’è invaghito subito, e se non fosse stato per quel mattacchione di Lynch, al regista francese sarebbe andata la mia personale Palma d’oro del Festival. Credetemi, una cosa mai vista. Sempre in Quinzaine, Sean Baker si conferma uno dei veri indipendenti americani con più cuore: il suo The Florida Project è di una dolcezza unica, eppure è anche divertente, puntuale, con il cast più azzeccato dell’intera annata. Due donne invece chiudono questa parentesi di opportune menzioni, una famosa, l’altra meno. Un beau soleil intérieur di Claire Denis è una commedia spassosa e tagliente, con un finale da prima della classe; Western di Valeska Grisebach è un film stupendo ma a cui manca giusto qualcosa, e che con qualche accorgimento sarebbe davvero stato uno dei primi tre del Festival. Proiettato in Un Certain Regard, non ha vinto un premio che sia uno; comincio a credere che succeda spesso coi film migliori.

Di seguito tutti i voti ai film visti, suddivisi per sezione.

CONCORSO

You Were Never Really Here, di Lynne Ramsay – 9
Happy End, di Michael Haneke – 9
Good time, dei fratelli Safdie – 8
The Killing of A Sacred Deer, di Yorgos Lanthimos – 7.5
Loveless, di Andrei Zvyagintsev – 7.5
120 battements par minute, di Robin Campillo – 7.5
The Square, di Ruben Ostlund – 7.5
The Beguiled, di Sofia Coppola – 7.5
Okja, di Bong Joon-ho – 7.5
L’amant double, di Francois Ozon – 7.5
The Day After, di Hong Sang-soo – 7
The Meyerowitz Stories, di Noah Baumbach – 7
A Gentle Creature, di Sergei Loznitsa – 6.5
Le redoutable, di Michel Hazanavicius – 6
Wonderstruck, di Todd Haynes – 6
Radiance, di Naomi Kawase – 5
Jupiter’s Moon, di Kornél Mandruzcó – 5
Rodin, di Jacques Doillon – 4
In the Fade, di Fatih Akin – 4

FUORI CONCORSO

Les Fantômes d’Ismaël, di Arnaud Desplechin – 7
D’après une histoire vraie, di Roman Polanski – 5
How to Talk to Girls at Parties, di John Cameron Mitchell – 7
Claire’s Camera, di Hong Sang-soo – 6

UN CERTAIN REGARD

Western, di Valeska Grisebach – 8
Lerd, di Mohammad Rasoulof – 5
L’atelier, di Laurent Cantet – 7.5
Wind River, di Taylor Sheridan – 7
La Cordillera, di Santiago Mitre – 4

QUINZAINE DES REALISATEURS

Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc, di Bruno Dumont – 10
Un beau soleil intérieur, di Claire Denis – 7.5
Alive in France, di Abel Ferrara – 5.5
Cuori puri, di Roberto de Paolis – 5
The Florida Project, di Sean Baker – 8
A Ciambra, di Jonas Carpignano – 7

EVENTI DELLA SETTANTESIMA EDIZIONE

Twin Peaks – Episodi 1 & 2, di David Lynch: 10

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