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Cannes 2017: You Were Never Really Here – recensione del film di Lynne Ramsay

Festival di Cannes 2017: un Joaquin Phoenix oltremodo generoso premia la non meno abile e capace Lynne Ramsay. You Were Never Really Here è una parabola feroce e spietata eppure dolce su infanzie rubate

pubblicato 27 Maggio 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 05:44

Disteso per terra, Joe (Joaquin Phoenix) tiene compagnia ad un funzionario governativo che sta morendo dissanguato per via di un colpo di pistola alla pancia; il colpo, sparato proprio da Joe. È uno dei momenti in cui l’umanità di You Were Never Really Here (tra l’altro, gran titolo!) splende con maggior vigore, emanando una luce che quasi abbaglia. Eppure si tende a sorridere per l’uomo che, a due passi dalla morte, intona un motivetto infantile, per poi essere seguito dallo stesso Joe. Ancora una volta Lynne Ramsay va a monte: per raccontare un uomo bisogna partire dal ragazzino che era, o che ancora è.

Malgrado il protagonista sia un adulto, si tratta per lo più di apparenza: il vero protagonista è rimasto alla propria infanzia, incastrato, costantemente alle prese col tormento per qualcosa che gli è stata irrimediabilmente sottratta. I flashback continui ci rimandano infatti a quel periodo in cui Joe veniva picchiato dal padre, umiliato; ed ancora una volta la regista scozzese scompone i corpi, si concentra sui dettagli, ci preclude quei volti che non possono (ancora) essere visti. Come nel suo primo corto, Gasman (1998), in cui osserviamo la quotidianità sprovvista dell’elemento individuale, di un’identità vera e propria. Tale identità è ciò che cerca disperatamente Joe, per questo le sue estemporanee e dolorose rievocazioni sono caotiche, frastornanti, non consentendo nemmeno a noi di raccapezzarci più di tanto.

Decide di salvare una ragazzina, Joe, lui che è un veterano di guerra e che si nutre della consapevolezza di non avere alcunché da perdere. Lei è Nina, bionda, innocente, vittima di un traffico sessuale di minori che coinvolge alti esponenti della politica. Ma chi vuole salvare realmente Joe? E da cosa? Lui oramai è una macchina, macina ossa con una naturalezza disarmante, ma da questa terrificante vicenda viene tramortito a tal punto da gettarsi a capofitto e fare la cosa che ritiene la più giusta: sottrarre Nina a quell’inferno.

Feroce, muscolare, geometrico e diretto, come sempre nel cinema della Ramsay, You Were Never Really Here ha comunque un cuore grande come una casa, perché dei propri personaggi è davvero interessato, non finge. Non importa tracciarne un profilo, dare contezza circa il loro retaggio: ce li abbiamo davanti. Non a torto si penserà a Taxi Driver, da cui la Ramsay mutua qualcosa del suo protagonista, il suo senso di giustizia dettato da un disagio profondo, eppure disinteressato, quasi candido. E si ritorna all’infantilità di questi personaggi, sempre nell’accezione positiva del termine: banalmente, vedono qualcosa che non va, avvertono che è sbagliato e agiscono per ristabilire un ordine, non meglio precisato perché loro stessi non ne hanno consapevolezza.

Tra gli svariati passaggi che spezzano il cuore c’è l’incontro di Joe e Nina, quando il veterano di guerra la tira fuori da un edificio. Tornati in macchina lei lo abbraccia e comincia a dargli dei baci sulla guancia; al che Joe la ferma, dicendole che non c’è bisogno che lo faccia. Dopodiché le mette la cintura di sicurezza e si parte. Sono tocchi di una delicatezza unica, sebbene la Ramsay non si fermi solo a questo tipo di accorgimenti, sapendo alternarli con un’estemporanea violenza che sistematicamente colpisce. E qui tocca rivolgersi ad un altro leitmotiv del suo modo di lavorare, con quell’uso ammirabile che fa del tappeto sonoro, intendendo con questo non solo la colonna sonora (meraviglioso qui Jonny Greenwood) ma anche tutta una serie di effetti attraverso cui l’esperienza di You Were Never Really Here diventa sinestetica.

Se infatti il Travis Bickle viveva in una New York notturna e allucinata, qui rimangono sì le allucinazioni ma alla luce del sole; la vicenda si svolge infatti quasi interamente in ore diurne, il che macchia l’avvicendarsi degli eventi di questa umidità appiccicaticcia, grazie anche alla fisicità di Phoenix, che racconta ogni cosa senza ricorrere più di tanto alla parola quanto al linguaggio del corpo. Mai prevedibile perciò la Ramsay, nemmeno nell’uso che fa di questo antieroe, adottando scelte che pagano pressoché senza eccezioni: quando sul finire, dopo una sequenza magistrale nella quale viene mostrato come Joe irrompe in una villa presidiata da guardie senza praticamente farci vedere alcunché, il protagonista scopre di essere arrivato troppo tardi (tranquilli, non vi stiamo rovinando alcuna sorpresa), la sua reazione è indecifrabile ma per qualche strano motivo “giusta”, perfettamente in linea con la sua psicologia.

Imprevedibilità che si estende perciò ad ogni componente, quantunque il vero valore aggiunto di You Were Never Really Here non stia nella scrittura (la sceneggiatura starebbe nel proverbiale fazzoletto) bensì nella voce personalissima, di un’eleganza ed un’immediatezza più uniche che rare. Senza però imporre uno stile quale che sia, come se di questa storia di vendetta e riabilitazione, ammesso che siano obiettivi concretamente conseguibili, ce ne fregasse qualcosa solo perché ammaliati dalla prosa. Il soggetto di You Were Never Really Here è potente, magari più in relazione alle dinamiche al presente che al passato di Joe, ma quanti hanno il desiderio e poi il coraggio di sfidarci già in premessa, non per il solo gusto di scandalizzarci? L’incipit è infatti a priori da pugno nello stomaco, mentre lo sviluppo non fa che infierire; fino a quel devastante epilogo, che ci restituisce un film con qualcosa in più, che qua e là si scorge, si avverte per tutto il tempo, ossia un’anima. E che anima!

[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]

You Were Never Really Here (Francia/USA, 2017) di Lynne Ramsay. Con Joaquin Phoenix, Ekaterina Samsonov, Alessandro Nivola, Alex Manette, John Doman, Judith Roberts, Jason Babinsky, Frank Pando, Kate Easton e Madison Arnold. Concorso.

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