Cannes 2018, Asako I & II: recensione del film di Ryûsuke Hamaguchi
Festival di Cannes 2018: dentro all’ultimo film di Ryûsuke Hamaguchi c’è un anime in potenza che probabilmente avrebbe dato ragione di certe intuizioni, che, diversamente, tendono a perdersi
Asako (Erika Karata) è giovane, timida, bella. Baku (Masahiro Higashide), anch’egli un bel ragazzo, la vede e se ne invaghisce. L’amica di Asako avverte quest’ultima: non ti fidare di quello, è uno sciupafemmine. Ma lei non ne vuole sapere, ha già gli occhi che le luccicano ed in men che non si dica è totalmente in balia di Baku. I due non riescono a staccarsi l’un l’altro; persino quando cadono dalla moto non si pongono troppi problemi, sapendosi vicini oltre che illesi, perciò basta uno sguardo, una risata, ed è come se non fosse accaduto nulla. Finché un giorno Baku non scompare (ci aveva già provato): stavolta la scusa è un paio di scarpe. E stavolta il ragazzo di Asako non torna.
Ryûsuke Hamaguchi è lo stesso che tre anni addietro s’impose agli occhi della critica con il suo Happy Hour, particolare esperimento di esaltazione dell’ordinarietà, lungo quasi cinque ore, con queste donne di trent’anni alle prese con le sfide della loro generazione, nel Giappone odierno. Con Asako I & II Hamaguchi opta per qualcosa di più convenzionale, quantomeno nel genere; il suo è un film romantico in cui però non si rinuncia alla possibilità di descrivere uno o più stati d’animo, spesso contrastanti, certamente complessi. E lo fa attraverso una storia che adotta sì il registro del reale, immettendo però un elemento che fa sul serio la differenza.
Due anni dopo, infatti, Asako conosce Ryohei, sempre intepretato da Higashide: identico a Baku, perciò, la ragazza resta interdetta dalla somiglianza. Asako lavora presso una caffetteria e l’incontro si consuma nell’ufficio in cui Ryohei opera come rappresentante; sia noi che la giovane di tutta prima non capiamo esattamente cosa stia accadendo. Inutile costruirsi castelli, perché nessuno sta fingendo alcunché: Ryohei è proprio un’altra persona. Anche Asako se ne rende conto ma non riesce a resistere, ad avvicinarlo, pur scoprendo un profilo diverso, essenzialmente opposto alla sua vecchia fiamma: Ryohei è decisamente più conciliante, con la testa sulle spalle, e di lì a poco s’innamora di Asako manifestandolo in un modo che non ha nulla a che vedere con Baku.
Emerge perciò questa contrapposizione, le diverse aspettative, oltre che l’atteggiamento invertito da parte di una Asako che adesso può contare su una copia spiccicata dell’amore di una vita, per giunta più invaghito, interessato. Non stupisce, tuttavia, che alla ragazza sembri mancare qualcosa, che tali condizioni, sulla carta ideali, non la convincano a pieno. Come se in realtà il rapporto con Ryohei fosse artificiale, proprio perché in fondo è esattamente quello che ha sempre sperato da Baku. Senonché Asako non era innamorata di un’immagine, un desiderio, bensì di Baku così per com’era, anche alla luce di quei “difetti” che, non per niente, hanno portato alla fine di quella favola.
Sembra infatti che Hamaguchi intenda approntare un discorso che richiami proprio le differenze, la distanza tra una relazione vera ed una immaginata o immaginaria, tra ciò che si desidera e ciò che è. L’escamotage al quale fa ricorso, però, rischia di ritorcersi contro, e per quasi tutto il film: sino alla fine, d’altronde, non si viene mai del tutto a patti con questo doppio interpretato da Higashide, per quanto se ne colga la funzione ai fini appunto del ragionamento che Hamaguchi intende fare.
Ed è un peccato, perché qualcosa si riesce a tirare fuori, sebbene a questo giro ci si limiti ad una formula ben più familiare rispetto ad Happy Hour, una struttura classica da romance che vira a qualcos’altro; non il fantastico ma nemmeno quella sorta di realismo che invece abbraccia tutte le altre componenti. In un film romantico non devono infatti far specie certe apparenti forzature, sia esso un incontro che di fortuito ha poco oppure quella sorta d’ingenuità tipica di quei ritratti gentili tra due persone che si vogliono bene; eppure l’intuizione di Hamaguchi, che ha un suo perché proprio nell’ottica illustrata sopra, inerente al rovesciamento della figura di Asako, tende a tenerci un po’ fuori.
C’è da dire che a priori vi sono già dei limiti che, per esempio, in Happy Hour non si riscontrano, e che stanno in alcuni passaggi in cui lo scarto culturale si sente di più, non tanto per ciò che dicono o fanno i personaggi ma per come lo dicono o lo fanno, scelta precisa del regista. Non problemi, ma appunto barriere, per quanto piccole, che lavorano senza che quasi ce ne accorgiamo, pur non impedendoci di avvertire il garbo con cui Hamaguchi ha inteso raccontare la vicenda. Esperimento interessante, se non altro perché eseguito, è un’impressione, come se si stesse trasponendo un manga da un anime; non per nulla non riesce a lasciarci l’idea che certe soluzioni avrebbero trovato terreno ben più fertile nell’ambito di un film d’animazione.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”5.5″ layout=”left”]
Asako I & II (Netemo Sametemo, Giappone, 2018) di Ryûsuke Hamaguchi. Con Masahiro Higashide, Erika Karata, Kôji Seto, Sairi Itoh, Rio Yamashita, Misako Tanaka, Daichi Watanabe e Kôji Nakamoto. In Concorso.