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Cannes 2018, Ayka: recensione del film di Sergey Dvortsevoy

Festival di Cannes 2018: idea interessante, quella di Dvortsevoy, che si perde però nella foga di sottoporci una tesi dimostrata a priori

pubblicato 19 Maggio 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 20:08

Ayka si è chiusa in bagno. Un attimo prima l’abbiamo vista sdraiata su un letto d’ospedale, reparto maternità: urla di neonati, infermiere che corrono da una parte all’altra freneticamente. Perché Ayka sta cercando di scappare dalla finestra? La vediamo correre affannosamente, mentre il cellulare squilla in continuazione e lei, anziché rispondere, si tocca il ventre. La macchina da presa non la perde di vista un attimo, tanto che per un po’ viene da pensare che la soluzione sia simile a quella adottata da Nemes per Il figlio di Saul. Arriva in un edificio in cui stanno spennando dei polli, e così anche lei, la giovane, visibilmente provata, indossa dei guanti e si mette all’opera. Ha bisogno di soldi, questo da un certo momento in poi diventa evidente, ma non li avrà, non in questo caso; il tizio che glieli doveva, a lei come ad altre donne, se n’è uscito con una scusa ed è scappato.

Sergey Dvortsevoy ci mette poco a mettere in chiaro le cose: con Ayka si è sottoposti ad una prova. Si tratta di un film che fa di tutto per non farsi vedere, e questo per certi versi è il suo pregio, senza per forza indossare i panni del masochista. Sfida mediante lo sguardo, sfida con la pressione psicologica, chiedendoci implicitamente fino a che punti siamo capaci o anche solo disposti a resistere. Sia chiaro, non si vede alcunché di particolarmente scabroso; Ayka lavora per altre vie, catapultandoci lì, con la sua protagonista, e l’ansia che trasmette. Se non corre da qualche parte per racimolare quattro soldi, è lì che tenta di ragionare con qualcuno dall’altro capo del telefono, qualcuno che le ha prestato dei soldi e ora li rivuole indietro. Ayka non ce li ha, per questo rimbalza da un posto all’altro ad elemosinare anche la più modesta delle mansioni.

Non è facile starle dietro, ed in fondo è esattamente questo l’intento. Tuttavia i limiti non stanno in questa scelta di “schiaffeggiare” il publico, bensì nel fatto di non riuscire a dare la giusta forma. Dvortsevoy ha certamente qualcosa da dire, solo che attraverso il suo argomentare si fatica più del dovuto, quasi s’arranca, proprio per via di questo taglio smaccatamente documentaristico, che ha una sua valenza, sebbene non porti i risultati sperati. Si tratta di soppesare la situazione degli immigrati irregolari in Russia, di che vita fanno, di come sono visti e fino a che punto sia sostenibile questo stato di cose. Ayka, scopriamo, ha avuto un bambino da poco, lo stesso che ha lasciato in quel reparto maternità, certo che qualcuno se ne sarebbe occupato. Da lì in avanti prova a risolvere la cosa da sé, certa di dover combattere non solo con questa fattispecie ma pure con chi le sta col fiato sul collo.

L’estenuante viaggio prosegue verso diversi posti di lavoro: qui non la prendono perché una collega ha approfittato della sua breve assenza, qui perché non è quella che cercano, in quest’altro posto perché pur essendo capace non riesce a barcamenarsi, in quest’altro posto ancora non può perché non ha i documenti. Sullo sfondo una popolazione, quella russa, che la tratta come se non esistesse, mentre magari lei chiede dove si trova una strada, una via, ma niente, nessun vuol darle conto. Pur non cogliendola a pieno, si percepisce questa intenzione di restituirci un personaggio totalmente estraneo al contesto, che le è profondamente ostile, dando ragione di questa sua alienazione non attraverso chissà quali discorsi, ma mediante la sua inadeguatezza, il suo essere trattata come uno straccio da chiunque. No, Dvortsevoy non ci va giù leggero per nulla; è come se ciò che sperimenta Ayka dovessimo sperimentarlo pure noi.

Abbiamo alluso alla forma poco sopra, anche se il discorso andrebbe probabilmente esteso alla struttura, attraverso la quale non si riesce a dare sostenere l’esperienza filmica alla quale evidentemente si aspira. Non parliamo di stile, ché di solito si tende a fraintendere come qualcosa di “aggiunto”, un’integrazione possibilmente indebita; la macchina a mano, le inquadrature strette, i brevi pianosequenza, hanno al contrario una loro funzione proprio rispetto a quanto si vuole trasmettere, ossia un senso di oppressione, cosa che effettivamente Ayka avverte. Troppi sono i fronti ai quali è esposta; troppi e troppo incalzanti. A conti fatti quello di Dvortsevoy è un survival movie urbano, che prende il titolo della sua protagonista non per nulla, dato che carica tutto sulle sue spalle.

Non ha molto infatti da raccontare, paradossalmente proprio perché tanto vorrebbe dire, circa un Paese, una condizione, che certamente possono essere appena sfiorati. Il tutto invece viene ridotto alla sola Ayka, al suo volto sofferente, alla sua estrema solitudine, lei straniera in un un ambiente che naturalmente tende a stritolarla. Peccato che Dvortsevoy appaia troppo sbrigativo proprio rispetto al contesto sopra evocato, che è poi lo stesso che avrebbe dovuto conferire spessore e consistenza alla vicenda. Cinema degli ultimi, certo, nel senso di storie che guardano ai dimenticati o emarginati, come soprattutto i Dardenne, viene da dire, sanno fare. La faciloneria mediante la quale vengono tratteggiate le varie minacce con cui Ayka deve fare i conti, nondimeno, diluisce di molto la portata del discorso, rendendolo quasi innocuo al di là del tour de force. Se ai cattivi non diamo la possibilità di essere altrimenti, anche se poi continuano a comportarsi come tali ugualmente, difficilmente possiamo credergli fino in fondo; ed è probabilmente questo uno degli ingredienti che manca al lavoro di Dvortsevoy, ossia la foga di voler dimostrare una tesi che ritiene a priori dimostrata, come se partisse dal presupposto di rivolgersi a chi la pensa come lui o già sa ciò che lui sa. Restringendo a tal punto il nostro campo, a rimetterci non può che essere il film, solo in un secondo momento lo spettatore.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]

Ayka (Russia/Germania/Polonia, 2018) di Sergey Dvortsevoy. Con Samal Yeslyamova. In Concorso.

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