Cannes 2018, Lazzaro felice: recensione del film di Alice Rohrwacher
Festival di Cannes 2018: favola intrisa di neorealismo, tra mito e magia. Lo sguardo gentile e il tocco garbato di Alice Rohrwacher fanno centro
Che Italia è quella che ci scorre davanti agli occhi, verace, all’inizio di Lazzaro felice? Nell’ultimo lavoro di Alice Rohrwacher i riferimenti si sprecano: Olmi, De Sica, Zavattini e via discorrendo. Al terzo film però pensi grossomodo di sapere cosa aspettarti da questa regista, che torna a certe ambientazioni antiche, rustiche, accostandosi a un gruppo di campagnoli, famiglia allargata sul modello tribale, tipica dell’Italietta pre-Guerra, quella contadina, lontano dai grandi centri, fondata su una cultura che Pasolini non smise mai di celebrare. Tuttavia la Rohrwacher non offre appigli, a parte quel dialetto presumibilmente laziale che, scopriremo più avanti, in realtà non rileva ai fini di alcuna collocazione.
Poco alla volta fanno capolino alcune piccole ancorché significanti incongruenze, talmente evidenti che non si può pensare siano semplicemente sfuggite. Cose di cui «fia laudabile il tacere» affinché non s’intacchi il lavoro, quel senso di sorpresa seguito dall’opportuno smarrimento, del tipo che a un certo punto si comincia a dubitare non solo del dove ma addirittura del quando. La Rohrwacher lavora sulle sfumature, ché quando giri un film di questo tipo, ossia una favola neorealista tra mito e magia, sono praticamente tutto. E di Lazzaro, che ne facciamo? Nella prima parte il giovane ha una presenza un po’ interlocutoria, è lì, lo vediamo, ma il centro rimane ancora il contesto, le sue dinamiche, i suoi ritmi; quasi fosse un’opera di Pietro Marcello, in quei paesaggi rurali, quelle abitazioni di campagna disadorne ma calorose, che generano un’atmosfera posta al di là del tempo.
L’osservazione, tipica appunto dell’approccio di Marcello, in Lazzaro felice è però solo funzionale al resto del racconto, una sorta di prologo anziché nodo centrale esso stesso. Qui è importante conoscere Lazzaro, capire che è un ragazzo meraviglioso, che aiuta tutti e non si lamenta mai, parla poco, ha uno sguardo che trasmette stupore per ogni minima cosa. Il tocco gentile della Rohrwacher in questo caso fa proprio la differenza, poiché a Lazzaro ci si affeziona subito, anche se magari un po’ ci si stringe il cuore e un po’ ci s’incazza nella misura in cui si fraintenda quella immensa disponibilità per un ben più prosaico zerbinaggio, quando invece, ci mettiamo poco a rendercene conto, è il solo e unico modo che il giovane ha di relazionarsi al prossimo.
Ad un certo punto però le presunte certezze che ci siamo confezionati, previo depistaggio, va da sé, vengono clamorosamente meno, e qui emerge la regista che si sente già abbastanza matura da poter osare, provare qualcosa di rischioso, diverso, inusuale. Diciamo solo che quel mondo lì era tutta una messa in scena, una virata per cui va fatto fondo immediatamente alla nostra sospensione d’incredulità, perché realisticamente non si può credere verosimile una situazione del genere. Ci vuole pazienza, ma forse anzitutto predisposizione, perché se anche si è capito dove si vuole andare a parare, e non è così complicato, può pure darsi che certe soluzioni, certo tenore non riscaldi, anzi contrari. Poco male, ci spiace per loro.
Perché qui si va per tutt’altro percorso, verso un altro reame, dismesso l’abito del realismo più ostinato e indossato quello che cavalca il fantastico, attraverso un lavoro di pura narrazione, unico effetto speciale a cui la Rohrwacher si affida. Passano all’incirca una ventina d’anni e Lazzaro, che non si era più trovato e tutti avevano dato per morto (anche noi), risuscita; solo che per lui il tempo non è passato, è come se fosse rimasto sospeso, ed ecco allora irrompere prepotente il mistero, lo stesso che la regista di Fiesole maneggia con cura, non facendosi fagocitare dall’inspiegabile, che invece interviene al momento giusto, nel modo giusto. L’innocenza del ragazzo, pure quella è rimasta intatta e non smette di colpire; un conto però è muoversi all’interno di un luogo per lo più “incontaminato” come quello in cui viveva prima, fatto di cose semplici, anzi semplicissime, altro è sbattere il grugno con una realtà ben diversa, la nostra.
Si guardi a come quelle persone vivono la non disponibilità di denaro, il fatto che, a fronte di quanto sgobbino, in pratica non vengono retribuiti: ci ridono su, certo, dà loro fastidio, ma poi il delegato della marchesa si allontana e la vita torna a scorrere come prima, lontana da certi gravosi pensieri. Qualora qualcuno a questo punto avesse colto una punta d’ingenuità, ebbene, aggiungerei che c’è più di una punta: questo guardare a quella società lì con gli occhi nostri, di chi insomma ha da far fronte alle spese più disparate, regole, regolette, moduli e quant’altro, potrebbe pure lasciare il tempo che trova, se non fosse che non s’indulge nella celebrazione, trattandosi appunto solo di uno sguardo, peraltro garbato.
Recuperando una gloriosa tradizione come quasi nessun altro è riuscito a fare negli ultimi vent’anni almeno, Alice Rohrwacher si mette sulla scia degli autori citati sopra; lasciate perdere confronti e quant’altro, improponibili per tutta una serie di ragioni. Basti sapere che là fuori c’è un piccolo film con un cuore, che è italiano, verrebbe da dire quintessenzialmente italiano, dato che rimanda a una stagione in cui solo autori italiani sapevano (o potevano) raccontare storie del genere, con questo piglio, questa tenerezza. Sì perché Lazzaro felice sa essere dolce senza mai mutare in dolciastro, pur non essendo impeccabile, certo (nel finale, per dirne una, si avverte un po’ di più la mano calcata), ma che nondimeno riscalda, e che riesce a stare in piedi più o meno saldamente dall’inizio alla fine, mentre le occasioni per collassare non mancherebbero.
Rifiutando l’appiattimento, quello per cui ci si spalma sulla realtà spacciandolo poi per realismo, di cui ne è tutt’al più la triste parodia, quest’agrodolce parabola sociale ma irrealistica, fiabesca dunque concreta, consacra la Rohrwacher quale volto di un cinema che sa parlare di un’altra Italia, quella che altrove, sul grande schermo, piace immaginare e dunque vedere esclusivamente quale covo di cialtroni e mafiosi, in altre parole un Paese mediocre. È vero, abbiamo la nostra dose di mediocrità con cui fare i conti, ma per il resto rispediamo risolutamente al mittente, facendoci forti del sostegno di gente, tra gli altri, come il summenzionato Marcello e, a questo punto, pure la Rohrwacher.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
Lazzaro felice (Italia, 2018) di Alice Rohrwacher. Con Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Tommaso Ragno, Luca Chikovani, Agnese Graziani, Sergi López, Natalino Balasso, Nicoletta Braschi, Leonardo Nigro, Gala Othero Winter e Davide Denci. In Concorso. Nelle nostre sale da giovedì 31 maggio 2018.