Cannes 2018, Leto: recensione del film di Kirill Serebrennikov
Festival di Cannes 2018: omaggio ad un periodo storico preciso, quella di Serebrennikov è una storia di riscatto culturale che per forza di cose si fa anche politico. Peccato solo dia l’impressione di fermarsi a metà strada
Leningrado, primi anni ‘80. Un teatro pieno a tappo segue le gesta di Mike Naumenko, ma si capisce subito che qualcosa non va, qualora la precisa collocazione storica e ambientale non fossero state abbastanza esplicite: un concerto punk rock seguito con la compostezza tipica dei teatri lirici, l’esatto contrario, la morte di tutto ciò che quei tizi sul palco stanno facendo. Kirill Serebrennikov nel suo Leto cerca di compensare, apponendo una pezza, per quanto tardiva, in quelli inserti sparsi per il film, in cui cover di brani famosissimi, tipo Perfect Day, vengono improvvisate da passanti, amici dei protagonisti, per poi chiarire un attimo dopo che tutto ciò non è mai accaduto veramente.
È questa la vocazione dell’ultimo lavoro del regista russo, anti-conformistica, incazzosa persino, che dall’epoca di riferimento rievoca non tanto i fatti quanto le sensazioni, anche se forse sarebbe meglio parlare di aspirazioni. Tutte frustrate, ça va sans dire, perché il Partito incombe, è dovunque, ti dice cosa pensare, come farlo, non importa perché; sei lì che agiti un innocuo cartellone con un cuore disegnato sopra ed ecco che la macchina si mette in moto, implacabile: certi attestati sono troppo, meglio perciò arginarli. Tuttavia Leto mi pare sia anche un film sul tanto inflazionato processo creativo, specie sotto certe condizioni, appunto quelle di un contesto in cui ciò che puoi dire e fare non è insomma il massimo.
Da un lato abbiamo il veterano Mike, dall’altro il giovane aspirante Viktor, non meno talentuoso, i quali, oltre a contendersi la scena, finiscono per contendersi pure l’amore di Natasha. Bellissima lei, musa ispiratrice delle meglio cose, le sue attenzioni, la sua vicinanza sono corroboranti per i due, tanto che sembra quasi che senza di lei non sia nemmeno concepibile produrre qualcosa, qualunque cosa, figurarsi roba per cui valga la pena. Lei resta lì, dietro le quinte, letteralmente e non, oppure tra il pubblico, ben consapevole del suo ruolo, di quanto il suo esserci sia in grado di spostare l’ago della bilancia.
Nell’ambito di questo pacato triangolo amoroso, casto oltre che pacato, si consuma buona parte della verve di Leto, che invece, per il resto, ci gira attorno un po’ troppo. Le inclinazioni di questo progetto, a un certo punto, sembrano diventare una scusa per una mancanza di consistenza che si avverte ben prima di giungere ai titoli di coda, appesantendo un film che già deve fare i conti con la sontuosa regia di Serebrennikov, che infonde un’atmosfera trasognante, lirica appunto, rotta per forza di cose da exploit estemporanei voluti, su cui si calca con decisione perché il senso in fondo è un po’ quello, ossia rompere, disfare.
È chiaro che il regista russo avverta tutto ciò come una vocazione, alla quale tutto sommato corrisponde, non senza però effetti collaterali, anche se non per forza indesiderati: ecco perché, probabilmente, il film sembri durare più di quanto riportato sulla sua scheda, non tanto il ritmo, a ragion veduta cadenzato. Va in svariati posti eppure non va da nessuna parte, un percorso magari consapevole quanto si vuole, ma che appunto ci mette davanti a quell’alone d’inconsistenza di cui sopra. Si aspetta che il film parta davvero, e quel momento per un po’ sembra essere lì lì per palesarsi, senonché non passa poi molto per convincersi che la vicenda stia proprio in quella premessa, a tratti addirittura ridondante.
Di solito certe misure tendono a funzionare, quando capita, se si parte davvero per la tangente, mentre invece Serebrennikov vuole essere sì sfuggente, ma non troppo, sì elegante, ma non troppo, sì scriteriato ma non troppo. Quegli inserti a mo’ di videoclip costituiscono perciò una sorta di reintegrazione del maltolto, in quegli anni in cui Kirill e i suoi coetanei guardavano all’Occidente nemico, Male Assoluto, che svezzava le nuove generazioni attraverso MTV, laddove chi aveva avuto la ventura di nascere sotto l’Unione Sovietica sembrava non avere altra scelta che seguire un freddo e prestabilito iter, che pressoché in ogni caso portava negli stessi due punti: o il funzionario di Partito, o l’operaio a vario titolo. L’avesse tenuto più alto quel dito medio, forse Serebrennikov avrebbe fatto centro a tutti i livelli con Leto.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]
Leto (Russia/Francia, 2018) di Kirill Serebrennikov. Con Irina Starshenbaum, Teo Yoo e Roman Bilyk. In concorso.