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Cannes 2018: voti e commento conclusivo

Festival di Cannes 2018: un’altra edizione del Festival di Cannes è terminata. Facciamo un bilancio e qualche considerazione

pubblicato 21 Maggio 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 21:00

Tanto tuonò che piovve. C’entra poco, o magari no. L’edizione 2018 del Festival di Cannes, la numero settantuno, ha portato due cose che da qualche annetto non si vedevano: la pioggia ed una Selezione su cui stavolta nessuno o quasi dovrebbe davvero avere da ridire. Chi scrive non è un detrattore così convinto e furente delle ultime due edizioni, interlocutorie quanto si vuole, avare forse di quei due/tre film che nei decenni a venire faranno invidia a chi non ha potuto esserci (anche se Elle, insomma), ma tra essere un attimo sottotono e pessimo ce ne corre.

Ciò che fa sorridere è che alla vigilia ci credevano davvero in pochi: specie tra gli italiani, non vi sembri a voi che da queste parti ci siamo dimenticati delle spallucce, le battutine e le riserve infondate con cui alcuni dei giornalisti e commentatori nostrani risposero all’annuncio della Selezione ufficiale. A tal riguardo, non sapevamo cosa pensare allora di queste reazioni, men che meno adesso, dato che c’è chi, convinto, persiste in questa mancata percezione, che gli/le fa dire bianco quando invece è nero e viceversa.

Il Concorso di quest’anno è stato uno dei migliori, forse il migliore dal 2013 a questa parte. Qualche autore affermato, qualcuno un po’ meno, in generale un’annata tutt’altro che avara, anzi, densa di lavori con cui, nel bene o nel male, tocca fare i conti. E viene quasi spontaneo partire dalla fine, da quell’epilogo che è stata la Cerimonia di chiusura con annessa premiazione. Cate Blanchett, nella conferenza stampa post-cerimonia, ha detto di aver fatto un patto all’inizio con gli altri membri della Giuria, per cui ogni istanza politica ed ideologica sarebbe dovuta essere subordinata al merito artistico di ciascun film; il risultato, a prescindere dai gusti, ha dato ragione in parte.

Difficile infatti credere che Ava DuVernay non abbia fatto tutto il possibile per dare un grosso premio a Spike Lee, anche fosse l’unica concessione, poi del resto si occupassero gli altri. C’è infatti un aspetto che è stato sottovalutato, o per lo meno, non messo in debito conto: c’erano due giovani attrici, come la Seydoux e la Stewart, e l’età in questo caso ritengo possa aver avuto ben più incidenza rispetto al sesso. Nulla di scandaloso, figurarsi, ma va almeno considerata la possibilità che entrambe, a fronte del “giusto” discorso, abbiano volentieri acconsentito all’idea di dare un segnale pure dal Festival più importante al mondo, dopo quello se possibile ancora più significativo lanciato dall’Academy con Moonlight l’anno scorso.

Questo, ossia il suo essere sul pezzo, unito al piglio del film, immagino siano state le ragioni per preferire BlacKkKlansman a parecchie altre cose. Se, difatti, gli altri premi rispecchiano in maniera tutto sommato centrata i valori che questo Concorso ha messo in campo, il Gran Premio a Spike Lee appare come minimo forzato. Tuttavia l’impressione è che si sia evitato il peggio, ossia la Palma d’oro a Capharnaum, che invece sta decisamente meglio nello slot del Premio della Giuria. Non solo. Trovo oltremodo azzeccata l’istituizione di una Palma d’oro speciale, anche se d’ora in avanti tocca cominciare (lo si poteva fare pure prima) a valutare abbia davvero senso mettere Godard a concorrere con tutti gli altri. Ma qui finisco. Mi premeva giusto sottoporre qualche accenno, ché sindacare sulle scelte di una Giuria, quale che sia, la trovo sempre pratica scivolosa e, in ultima istanza, un po’ fine a sé stessa. Solo che, ecco, non si poteva fare a meno di dirla qualche cosa, dato che tanto si è detto a tal proposito e tanto si dirà nell’immediato futuro. D’altra parte, una donna da premiare ma che uscì clamorosamente a mani vuote ci fu due anni fa; chissà come staremmo parlando oggi se le cose fossero andate diversamente.

Il film della Labaki, ad ogni modo, ci porta a quello che è stato uno dei leitmotiv più pressanti di questo Festival. Chi ci legge con più attenzione sa che, alla fine di ogni Festival, tentiamo di scovare un filo conduttore, un argomento o tematica che ha legato più film, più e meglio di qualunque altro discorso. Come quasi sempre accade, anche stavolta è venuto fuori, e si tratta dei bambini, a cavallo tra infanzia e adolescenza. Solo per stare al Palmares, ci sono quelli appunto di Capharnaum, straordinari a prescindere quasi dal fatto che il film abbia colpito o meno, ma ci sono pure quelli di Kore-eda. Ma poi pure quelli della Rohrwacher, di Shawky, di Fahradi. Presentati, ad intensità variabile, come vittime di un mondo adulto che gli ha messi malamente da parte, che non si cura di loro, che li ritiene a prescindere pronti a barcamenarsi nel mondo. Persino il bambino di Honoré, il figlio del protagonista, viene lasciato a sé stesso rispetto alla complessità della situazione in cui si trova il padre, omosessuale nella Francia di primi anni ’90.

A tutti loro, compresa la figlia di Marcello in Dogman di Garrone, non resta che guardare, esposti all’indecifrabilità di certe vicende, verso le quali non si tirano indietro, non si girano dall’altra parte, ma che al contempo soffrono perché, pur non avendone compreso a pieno contorni e implicazioni, capiscono essere per gli adulti delicate, forse addirittura pericolose. Oppure letteralmente abbandonati, e questo accade soprattutto in Africa e Medioriente, ossia Yomeddine e Capharnaum, i cui piccoli protagonisti debbono crescere tutto in una volta e tenere testa a condizioni rispetto a cui nemmeno i “grandi” si dimostrano all’altezza.

Certo, va fatta una distinzione in base all’area geografica, dato che le sfide tremende che debbono affrontare i bambini di Stefano Savona ed Eva Husson (in due parole: la guerra) non hanno niente a che vedere con quelli, per dirne uno, di Kore-eda. Bambini strambi, mostruosi come quelli di Border, vincitore in Un certain Regard; bambini ordinari ma dotati di fervida immaginazione come in Hosoda; bambini indesiderati come quello di Gaspar Noé. Mi pare che il discorso prosegua, e vada oltre l’infanzia, parlando di un’adolescenza protrattasi più del dovuto, come quella del protagonista di Under the Silver Lake, ubriaco di pop culture e perciò dotato di una percezione alienante non solo in relazione al mondo che lo circonda ma ancora prima a sé stesso. Bambini insomma chiamati ad essere adulti dalla natura, l’avvicendarsi degli anni, e non dalle condizioni, tranne che per un caso, ossia quello di Birds of Passage, in cui anagrafe ed ambiente hanno eguale rilevanza.

C’è parecchio su cui ragionare, ma meglio fermarsi qui, a questi pochi spunti. La qual cosa ci dà modo di tuffarci più impunemente sul personale, su quanto ci si porterà dietro da questa edizione. All’inizio avevo stilato una lista di film che attendevo con particolare interesse e diciamo che quasi tutti hanno corrisposto. Alcuni luminosamente, come Bi Gan, che ad avviso di chi scrive è proprio il migliore del Festival (per le ragioni rimando alla recensione). Mi hanno sorpreso registi come Lars Von Trier e Gaspar Noé, ai quali sono andato sotto sotto per essere confermato in certi pregiudizi, termine al quale non do una connotazione necessariamente negativa: si tratta di personaggi talentuosi che però ho sempre recepito come lontani, per dirla in maniera semplice. Alla fine, come vedrete sotto, stanno entrambi nella mia Top 10, e nemmeno tanto in basso.

Non si può, infine, non soffermarsi sugli italiani e sull’Italia, orfana a questo Festival del grande escluso Sorrentino. Sia Lazzaro felice che Dogman sono due gran bei film; definirli imperfetti non renderebbe a pieno l’idea, dato che in essi vi sono i segni, visibili, di opere che potevano essere addirittura più grandi. A Garrone tendo a preferire la Rohrwacher, che meritava un premio sebbene, tra tutti, quello per la sceneggiatura era forse il meno indicato. Garrone resta un grande scout di facce, e quella di Fonte immagino abbia avuto un ruolo non da poco ai fini del riconoscimento conseguito; ed anche se chi scrive non urla al capolavoro, ci sono pochi dubbi sul fatto che il regista romano sia il nostro cineasta di punta.

Tagliamo corto. L’edizione numero 71 del Festival di Cannes è stata corroborante, variegata, ma soprattutto viva. Anche in quelle compagini più modeste, leggasi film meno riusciti, ha saputo trasmettere quella nobile ansia verso il raccontare non solo il mondo ma ancora di più le persone ed il loro modo di vedere, prima ancora che d’intendere. I più smaliziati diranno che questo è il compito grossomodo di ogni Festival, fatto salvo l’indirizzo specifico. Vero. Solo che, al netto di tutti i compromessi e le logiche a cui una manifestazione come quella organizzata da Frémaux e soci deve far fronte, tenderei a non dare per scontato alcunché.

A quei tanti o pochi che hanno seguito con più o meno coinvolgimento da casa, dico perciò che la vetrina proposta sulla Croisette quest’anno è stata di pregio; che il mondo, qualunque cosa ne pensiamo, non è quel posto che ci piace immaginare che sia; che là fuori, pro o contro Netflix, ci sono tanti che non solo vogliono dire qualcosa (ci sono sempre stati) ma il cui desiderio, quasi l’ambizione di dirla fa il paio con la capacità di riuscirci. E senza gettarla in politica, non riesco a fare a meno di pensare a Jafar Panahi, che di quanto appena detto rispecchia forse l’esempio più emblematico. Senza farne un martire o che so io, dai tempi di This is not a film continua ad ingegnarsi la qualunque pur di continuare a girarne, in condizioni che anche da fuori sembrano oggettivamente proibitive. Il suo esempio, per chi, specie dalle nostre parti, si ostina a lamentarsi degli altri o con gli altri perché proprio non riesce a «realizzare la propria idea» (sic), dovrebbe avere lo stesso effetto di uno manrovescio dritto sulla guancia. La differenza resterà sempre tra due categorie: c’è chi i film li sa fare e chi no. Ma la terza, aggiunta, è se vogliamo la più triste: quella di coloro che si lamentano di non avere i mezzi per riuscirci. Spero di cuore non abbiano mai a pentirsi per non aver scoperto di quale tra quelle due categorie avrebbe fatto parte.

Di seguito una classifica dei film in Concorso. Segue un prospetto con tutti i voti ai film e, per finire, la mia Top 10.

CLASSIFICA DEL CONCORSO

1. Nuri Bilge Ceylan
2. Lee Chang-dong
3. Hirokazu Kore-eda
4. Jean-Luc Godard
5. David Robert Mitchell
6. Jafar Panahi
7. Alice Rohrwacher
8. Matteo Garrone
9. Jia Zhangke
10. Pawel Pawlikovski
11. Nadine Labaki
12. A.B. Shawky
13. Kirill Serebrennikov
14. Spike Lee
15. Ryūsuke Hamaguchi
16. Cristophe Honoré
17. Stéphane Brizé
18. Sergey Dvortsevoy
19. Asghar Farhadi
20. Eva Husson
21. Yann Gonzalez

VOTI AI FILM

Concorso

The Wild Pear Tree, di Nuri Bilge Ceylan – 9
Burning, di Lee Chang-dong – 8.5
Shoplifters, di Hirokazu Kore-eda – 8.5
Le livre d’image, di Jean-Luc Godard – 8,5
Under the Silver Lake, di David Robert Mitchell – 8
Three Faces, di Jafar Panahi – 7,5
Lazzaro felice, di Alice Rohrwacher – 7,5
Dogman, di Matteo Garrone – 7,5
Ash is Purest White, di Jia Zhangke – 7,5
Cold War, di Pawel Pawlikovski – 7
Capharnaum, di Nadine Labaki – 7
Yomeddine, di A.B. Shawky – 7
Leto, di Kirill Serebrennikov – 6
BlaKkKlansman, di Spike Lee – 5,5
Asako I & II, di Ryūsuke Hamaguchi – 5,5
Plaire aimer et courir vite, di Cristophe Honoré – 5,5
En guerre, di Stéphane Brizé – 5
Ayka, di Sergey Dvortsevoy – 5
Everybody Knows, di Asghar Farhadi – 5
Girls of the Sun, di Eva Husson – 4
Un coteau dans le coeur, di Yann Gonzalez – 3

Un Certain Regard

Rafiki, di Wanuri Kahiu – 4
Border, di Ali Abbasi – 7,5
Meurs, Monstre, Meurs, di Alejandro Fadel – 6,5
Long Day’s Journey into Night, di Bi Gan – 10
In My Room, di Ulrich Kohler – 4

Fuori Concorso

The Man Who Killed Don Quixote, di Terry Gilliam – 7
Solo: A Star Wars Story, di Ron Howard – 4
The House that Jack Built, di Lars Von Trier – 9

Proiezioni Speciali

10 Years Thailand – 5

Quinzaine des réalisateurs

Birds of Passage, di Ciro Guerra e Cristina Gallego – 8
Climax, di Gaspar Noé – 8
Mirai, di Mamoru Hosoda – 7,5

Semaine de la Critique

Samouni Road, di Stefano Savona – 6

TOP 10

1. Long Day’s Journey into Night
2. The House that Jack Built
3. The Wild Pear Tree
4. Climax
5. Burning
6. Shoplifters
7. Le livre d’image
8. Birds of Passage
9. Under the Silver Lake
10. Mirai

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