Cannes 2019, i quattro film che resteranno più uno
Festival di Cannes 2019: prima e aldilà di un bilancio generale, ecco i film su cui scommettiamo per il futuro
Quest’anno la farò breve. Non perché ci sia meno da dire, o perché qualcosa mi abbia contrariato. Au contraire, proprio perché di cose da dire ce ne sono, vorrei focalizzarmi su quelle e quelle soltanto, optando per un pensiero con concetto a corredo tutt’al più e finirla lì. L’edizione numero 72 del Festival di Cannes ce la ricorderemo, e lo faremo perché è stata una di quelle che praticamente non ha visto film da rigettare in Concorso: qualcuno è migliore di qualcun altro, gli ottimi sono chiaramente pochi, quanto ai cosiddetti “capolavori”, beh, prediamo in prestito quanto disse all’inizio il Presidente Iñárritu, ossia che su certe cose l’ultima parola ce l’ha sempre il tempo.
Di solito tento di accostarmi al Palmares per prima cosa, ma credo che limitatamente a questa edizione possa rivelarsi fuorviante – se non altro rispetto a ciò che ritengo sia opportuno conoscere di questo Festival; che non ha necessariamente a che fare coi premiati o anche solo i più chiacchierati. Certo, Parasite per il sottoscritto è il film che è, l’ho chiarito in recensione e chissà per quanto ancora sarò disposto a ribadirlo. Ma appunto, Bong Joon-ho l’attenzione che si merita l’ha già avuta, così come un premio che lo consacra definitivamente.
No, qui preferisco soffermarmi su quattro film che mi hanno stravolto, ciascuno a proprio modo. Alcuni le cosiddette prime pagine, anche se per poco, le hanno avute, altri invece immagino che “da fuori” siano passati ben al di sotto dei radar: dev’essere stato così, visto e considerato che al Festival pochi gli hanno visti e ancora meno sono quelli che ne hanno parlato. Su quest’ultimi ho cercato, con buon senso e senza fanatismo, di evangelizzare, di diffondere la buona notizia cannense, ossia che sì, in mezzo alla congerie di roba più o meno interessante, nemmeno tanto nascosta c’è stata pure l’Arte.
Trattamento riservato anche agli altri due, quelli di cui si è discusso un po’ di più, ma andiamo a menzionarli, così ci capiamo. E partiamo proprio da quest’ultima categoria. Se The Lighthouse si è rivelato il cocco del pubblico, che dal frastornamento che ne ha tratto si è lasciato una volta tanto cullare anziché negarsi, Mektoub, My Love: Intermezzo è una strana bestia concepita per tirare la corda al massimo. Non so quali siano state le intenzioni di Kechiche, a ‘sto giro a briglia sciolta come non mai, ma squalificare la sua instancabile nottata in discoteca, tra agitamenti di sederi, sguardi languidi, strusciamenti e tanto alcol, a mero tedio mi sembra frutto di un giudizio più di pancia che ragionato – d’altronde chi non è in grado di dire «che noia mortale, non vedo il senso di tutto ciò»?
Ebbene, per Kechiche il senso siamo noi spettatori, noi che guardiamo e che siamo sottoposti a questo tour de force visivo ed esperienziale che ok, può anche non invogliare, a tratti persino respingere ma ehi… non è forse anche questo il ruolo dell’Arte? A me pare che sempre più gli accreditati ai Festival, a certi Festival, siano maggiormente interessati a trascorrere del tempo con opere che gli accarezzino, si mostrino docili alle loro aspettative, ai loro desideri, che li confortino in ciò che già sanno o credono di sapere. Se non fosse che compito dell’Arte è tutt’altro, ossia sempre, costantemente mettere in discussione, calarsi nei panni scomodi del bastian contrario, far trapelare verità o semplicemente fette di realtà di cui nessuno o quasi parla, soprattutto in un certo modo.
Prendiamo ad esempio uno dei due film dell’altra categoria, quelli che ci sono stati anche se se ne sono accorti in pochi. Mi riferisco anzitutto a Liberté di Albert Serra; roba che Kechiche e Noé, per citarne due che hanno portato oggetti simili quest’anno, il secondo un Climax in formato ridotto (si chiama Lux Æterna), hanno girato una commedia per famiglie. Film oggettivamente monotono, la cui ratio poggia proprio sull’esposizione ossessiva a certe immagini, certi siparietti, così da dare ragione di quel titolo così beffardo e sarcastico. Se Le 120 giornate di Sodoma di Pasolini puntava il dito sul Potere non astratto ma quello esercitato da un regime, composto da persone, Serra si scaglia con violenza su un’altra forma di Potere, intangibile, ossia appunto quello della Libertà portata alle estreme conseguenze. Perciò l’elemento che accomuna i due film è la scandalosa, dunque indispensabile lucidità con cui descrivono l’Inferno. Non so quanti altri ci siano riusciti con altrettanta, abbacinante chiarezza, oltre che, certo, durezza.
Film religioso quello del regista catalano Albert Serra, come, in maniera diversa, quasi diametralmente opposta, il Jeanne di Bruno Dumont. Altro autore capitale, Dumont conferma che il Cinema di gente come lui ne ha bisogno ora e ne avrà sempre. È facile simpatizzare di più per Jeannette, che ha un taglio diverso, più giocoso quand’anche parli dell’infanzia di una Santa (e che Santa). Qui Dumont torna ad un clima più austero, eppure quanto respira meglio il suo soggetto, senza intralci, anche non vorrei che si pensasse che per me Jeannette sia meno che un lavoro importantissimo. C’è che questo ritorno sulla figura di Giovanna d’Arco è più accorato, diretto, circondato da un’aura di sacralità accessibile ma nondimeno stratificata. Arte, appunto.
Non resta perciò che chiudere col titolo con cui avevo cominciato, ossia The Lighthouse. Un Robert Eggers che già alla seconda prova, secondo alcuni la più importante, entra già in un territorio di cui molti hanno timore al solo scorgere la segnaletica. Film febbricitante, da cui ci si alza strapazzati. Rispetto ai tre summenzionati ha uno spessore meno significativo, va detto; è più il gusto del lavoro sul linguaggio, provare ad alzare l’asticella e descrivere questa discesa in un altro tipo d’Inferno, meno letterale di quello di Serra, che è la follia. Impetuoso, come le onde che si scagliano sul faro protagonista del film insieme ai grandiosi Pattinson e Dafoe, pure Eggers riesce a ritagliarsi un posto meritato in questo ristretto club di persone che hanno dato un senso a un Festival che vuole e deve anche celebrare il Cinema come Arte. Contributo che non a caso, se ci vedo giusto, consentirà a questi lavori di restare, mentre altri, ben più amati, blasonati, e magari persino premiati, se li porterà ahimè via il vento.
Non come l’ultimo di questo nostro gruppo (vi sembrava che me ne fossi dimenticato?). Perché menzionarlo a parte? E soprattutto, qual è il titolo? Non posso infatti esimermi da un menzione speciale, un po’ come ha fatto la Giuria con Suleiman, per A Hidden Life di Terrence Malick. In questi giorni su Twitter ho letto anche troppo spesso l’affermazione secondo cui si tratterebbe del miglior suo film da The Tree of Life. Non potrei essere più in disaccordo. Rispetto agli altri colleghi, Malick non spinge oltre, proseguendo semmai lungo quel sentiero sì tracciato nel 2011, compimento di un processo che ha avuto inizio con La sottile linea rossa ed è poi proseguito con The New World; ma è con Knight of Cups che aveva già portato il suo cinema su un’altra dimensione, o per meglio dire, su una dimensione altra. Perciò applausi alla sua commovente, meravigliosa ultima fatica, ma dopo quattro anni si cominci a parlare di quel suo film passato dalla Berlinale come capolavoro che è: una gemma che negli anni a venire studieremo, mettendo a disagio i fautori della triste storiella sugli spot di profumi.