Cannes 2021, The French Dispatch, recensione del film di Wes Anderson
Ennesimo recipiente di ossessioni e passioni di Wes Anderson, The French Dispatch è un museo che si concentra stavolta sui ’60 francesi del secolo XX
Nella cittadina di Ennui-sur-Blasé sorge una sezione distaccata del Liberty, Kansas Evening Sun, dedicata a chi nutre una certa passione per tutto ciò che è francofilo. Inutile fare il verso alle prime sequenze di The French Dispatch, tanto quel ritmo incalzante, fatto d’informazioni, date e curiosità non lo si potrebbe scimmiottare manco se avessimo messo pausa e ci fossimo presi il nostro tempo a prendere nota parola per parola. Il fondatore, Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray), ha un’idea precisata rispetto a ciò che cattura l’attenzione, editore navigato qual è, la qual cosa si traduce in una sola definizione: storytelling. Si allude alla neutralità del giornalista, ne fa un cavallo di battaglia Lucinda Krementz (Frances McDormand), sebbene sia la prima a contraddirsi, su questa come su altre cose. Ma tutto ritorna sempre a quello, ossia la capacità di affabulare.
Mi pare infatti che uno dei leitmotiv più pregnanti dell’ultimo film di Wes Anderson risieda proprio in quello che è più di un amore, una vera e propria ossessione per il racconto; una in mezzo alle altre, perché, come sempre, i suoi film vivono delle sue ossessioni (al plurale), che propone in maniera martellante ma con un gusto specifico, quello stile che tanti amano mentre altri non sopportano in quanto tutto o quasi più o meno subordinata ad esso. Una carrellata di suggestioni, rimandi e citazioni, che, lungi dall’essere a corredo, costituiscono l’ossatura.
È così anche in The French Dispatch, e non ci vuole un attento osservatore per rendersene conto. Quando all’inizio viene preparato un vassoio con sopra ogni sorta di prelibatezza in forma di cocktail di vario tipo, serviti alla maniera del tempo (fine anni ’60 più o meno), si resta colpiti, ipnotizzati dalla procedura: il vassoio che gira, i bicchieri e quant’altro che entrano in campo in maniera coreografica. È una festa per gli occhi.
Anderson, si sa, dispone di un gusto per la scena molto peculiare, nel senso che il suo stile altro non è che una rielaborazione di svariati temi e stagioni, ai quali si adegua con scrupolo anziché reinventarli. Un creatore di mondi, di cui ci fa fare esperienza come fossero delle scatole che magicamente si aprono, dandoci modo di affacciarci su un intero scorcio anziché su un particolare. Qui va detto che il nostro qualche deroga la fa, sia a livello visivo, con alcuni movimenti di macchina più atipici, così come nell’introduzione di minuscoli elementi fin qui però estranei al suo cinema, come il nudo integrale di Léa Seydoux. Un Anderson che tratta la sessualità dunque? Beh, non direi, anche perché un attimo dopo è lì a ribadire un certo pudore, con la Seydoux che, avvicinata dal pittore che la sta ritraendo, Moses Rosenthaler (Benicio del Toro), scaccia in malo modo l’artista: si guarda ma non si tocca.
Dopo aver illustrato la genesi di questa rivista, che tratta tutto il ventaglio di ciò di cui l’uomo contemporaneo (dell’epoca) vuole essere tenuto al corrente: attualità, politica, cucina, moda, sporta etc, si passa all’illustrazione pratica. Ed è palese che ciascuna di queste discipline vengano trattate nell’ottica di poter indulgere nel meticoloso rifacimento degli elementi che Anderson ha maggiormente a cuore. Data l’ambientazione, diventa tuttavia l’occasione per poter omaggiare in maniera più esplicita e diretta alcuni suoi maestri, su tutti Jacques Tati, richiamato già in una delle primissime inquadrature, una panoramica sull’iconica casa di Mio zio (1958). Un tributo inequivocabile, ad ogni buon conto già presente pressoché in ciascuno dei lavori di Anderson, che quel tipo di comicità l’ha interiorizzata nel profondo.
In The French Dispatch, come accennato, il regista si focalizza sulla redazione di tre articoli dell’ultimo numero, raccontando in pratica come sono maturati. C’è il pittore di successo (Del Toro), chiuso in prigione per scontare una pena che lo condanna a vita, mentre un facoltoso mercante d’Arte cerca di portare fuori almeno le opere, ricostruendo la scena artistica del tempo, sbeffeggiandola, ragionando sul cambio di paradigma dell’Arte astratta, quella che nessuno capisce e tramite la quale si fanno un sacco di soldi proprio per questo motivo.
C’è il fermento della gioventù del ’68, adolescenti guidati dal brillante Zeffirelli B. (Timothée Chalamet), un giovane insicuro ma che vuole smuovere le cose, esercitando abbastanza fascino e carisma per riuscirci. Anche qui, si tratta di un accenno faceto a quel periodo, una serie di botta e risposta ad effetto concepiti per generare una sorta di contropartita estetica, di certo senza alcuna pretesa di fare Storia. Storia, che, come accennato, emerge invece dalle manie, gli oggetti del tempo, ai quali viene dedicata la medesima cura ed attenzione riconosciuta agli attori, a loro volta oggetti nella mani di Anderson, che li muove come fossero dei pupi siciliani.
Ed in fine c’è l’articolo di cultura gastronomica, incentrato su un cuoco di nome Nescaffettier, redatto da Roebuck Wright (Jeffrey Wright), che trasforma il pezzo in un palcoscenico personale, lui intervistato in una di quelle trasmissioni à la Dick Cavett Show. Senza spiegarvi come, ammesso che ne sia in grado, alla fine il pezzo verte sul rocambolesco resoconto di un rapimento e successivo recupero, con tanto di lunga sezione animata.
The French Dispatch è dunque il solito stravagante Wes Anderson, denso, persino un po’ nerd, che crea storie su misura, come gli abiti che indossa. Un dandy d’inizio XXI secolo, figlio perciò in toto del proprio tempo, a suo agio perciò coi codici appartenti ad altri media, Fumetto e Videogioco su tutti, con uno spiccato senso dell’umorismo che, vuoi o non vuoi, attecchisce sempre, come quando, attraverso una grafica, viene segnalato in tempo reale il conto del denaro investito per corrompere le guardie del carcere di cui all’episodio dell’artista. Cercare motivi ulteriori potrebbe pure rivelarsi una pratica interessante, ma quelle di Wes Anderson sono giostre, a volte montagne russe, altre ruote panoramiche; la cosa migliore da fare perciò è sedersi, allacciarsi le cinture e godersi la corsa. C’è a chi piace da morire, ma c’è anche a chi gli viene da rimettere. Ci sta.
The French Dispatch (USA/Germania, 2021) di Wes Anderson. Con Benicio Del Toro, Adrien Brody, Tilda Swinton, Léa Seydoux, Frances McDormand, Timothée Chalamet, Lyna Khoudri, Jeffrey Wright, Mathieu Amalric, Stephen Park, Bill Murray, Owen Wilson, Christoph Waltz, Edward Norton, Jason Schwartzman, Liev Schreiber, Elisabeth Moss, Willem Dafoe, Lois Smith, Saoirse Ronan, Cécile de France, Guillaume Gallienne, Jason Schwartzman, Tony Revolori, Rupert Friend, Henry Winkler, Bob Balaban ed Anjelica Huston. In uscita nelle nostre sale giovedì 11 novembre 2021. In Concorso.