Carrie, lo sguardo di De Palma
Il genio letterario di Stephen King e quello di Brian De Palma si incontrarono nel lontano 1976 per dare vita ad una delle trasposizioni più riuscite nella storia del cinema horror. Fedele quanto basta alla pagina scritta, il “Carrie” di De Palma è una delle prime e più sottili divagazioni “voyeuristiche” del suo regista, ma anche un film con un cuore nero, pulsante ed autentico.
175 pagine per entrare nella storia della letteratura moderna. 175 pagine di manoscritto gettate nella spazzatura da uno scrittore fin troppo zelante e quindi miracolosamente salvate dalla moglie. Lei è l’eroina poco conosciuta col nome di Tabitha Jane Spruce. Lui invece è meglio identificato col solo cognome d’arte e di vita: King, Stephen Edwin.
Questa la cronaca che gira intorno al primo manoscritto del “re”, quella cronaca che sconfina facilmente nella leggenda, alimentando il mito di un autore che forse “non ci sarebbe stato se…”. Ma poi ci importa davvero se quanto sopra riportato sia tutto, più o meno, vero? Questa è la verità da cui qualsiasi fan innamorato (come il sottoscritto) si lascerebbe persuadere ben volentieri, confortato per di più dall’eloquente dedica posta al principio di quel folgorante romanzo passato disinvoltamente dal cestino all’editoria (“A Tabby, che mi ha fatto entrare in questo incubo, e poi me ne ha fatto uscire”).
Il romanzo in questione era (è) “Carrie” e nel 1974 decretava ufficialmente la nascita di un genio destinato a segnare in profondità l’ultimo quarto di secolo letterario, Stephen King. Un altro genio, Brian De Palma, era nato invece dieci anni e nove lungometraggi prima. Il destino avrebbe fatto convergere poco dopo questi due talenti nel medesimo progetto: rileggere la penosa e agghiacciante vicenda di Carrie White attraverso il linguaggio cinematografico.
“Rileggere” certo. Perché i migliori film tratti da King (a prescindere da ciò che ne pensa il “reuccio”, spesso in disaccordo con le “libere” trasposizioni dei suoi libri) sono, a mio modesto parere, soprattutto quelli che hanno il coraggio di “rivisitare” (e magari un po’ “tradire”) lo stesso materiale di partenza. Adattamenti che osano sfrondare pagine e pagine di testo sacro mentre ne solcano la struttura e che aggirano i pericoli insiti nell’ossequiosità letteraria amplificando, per lo più, le suggestioni maggiormente “filmabili” (leggi “Shining”).
Carrie- il romanzo, di suo, sarebbe stato opera difficilmente traducibile per il cinema se ci si fosse attenuti esclusivamente al costrutto letterario d’origine. Questo accade perché la tipica narrazione kinghiana (costruita da flashback e alternanze) viene qui intervallata da citazioni di atti giudiziari, articoli di giornale e testimonianze in prima persona dei protagonisti “sopravvissuti”, tutti elementi che contribuiscono far immergere “d’emblée” il lettore in un contesto di tragedia già avvenuta, fornendogli contestualmente un punto di vista alternativo (magari scevro di possibile empatia) a quello della vicenda nel suo svolgersi.
Ne esce fuori un racconto strutturalmente secco e apparentemente distaccato (King non scava nella psiche della protagonista come gli succederà di fare in opere successive), ma che in realtà nasconde il suo cuore struggente e “maledetto” fra le pieghe di una riflessione ulteriore: quella affidata allo sguardo “terzo” del suo lettore. Un capolavoro assoluto ed implacabile ma poco adatto a traghettare, così com’è, da una pagina (perfetta) ad uno schermo suscettibile di impoverirla.
Ed è qui che si fa avanti il genio di Brian De Palma, uno fra i cineasti più coerenti dell’attuale panorama, regista che intuisce da subito le potenzialità visive della novella kinghiana e ne offre già una possibile chiave di lettura cinematografica. Perché quella di Carrie White non è (soltanto) la storia una adolescente introversa, emarginata e arrabbiata – “scanner” più per necessità che per maledizione- o della sua sanguinosa vendetta contro un ultimo orribile “scherzo”, ma anche un delicato e penoso trattato su temi come “colpa” e “vergogna”.
Chi è infatti Carrie se non il catalizzatore ideale di tutte le rogne e il marciume del sistema? Dalla società-scuola (dove tira fuori il marcio dalla compagna che potrebbe aiutarla o l’inettitudine da un preside), alla famiglia (lei è la gravidanza inattesa, il frutto del gesto “depravato” che ha originato la solitudine della madre) fino alla religione, distorta fino a diventare abietto strumento di educazione repressiva, tutto ciò che Carrie incrocia a testa bassa sul suo sentiero diventa lercio per contrappasso, facendo risaltare ancor meglio quella sua immagine angelicata e priva di colpe.
Non sappiamo se sia stata questa la sensazione percepita da De Palma quando chiuse il romanzo di King. Quel che appare certo è che ogni elemento della sua mirabile messa in scena, dai morbidi movimenti di macchina alla fotografia dorata e sognante fino alle note dolcissime e angoscianti di Pino Donaggio, rende questo “Carrie” più che una progressiva discesa negli inferi da parte della protagonista, il diario di colei che quell’ inferno lo abitava già. “Carrie White burns in Hell” si legge quale rancoroso epitaffio sulla sua croce nell’ultima spaventosa sequenza. E se invece fosse stato l’inferno a rimanere sulla terra dopo che Carrie se n’è andata?
De Palma sembra quasi far sua quell’empatia che lo stesso King non riuscì a manifestare troppo nel romanzo (da qui forse la scelta di utilizzare atti e documentazioni, utili a descrivere la vicenda e magari a “distaccarsi” da un personaggio nei confronti del quale nutriva evidentemente sentimenti ambivalenti). Inoltre il territorio da esplorare, cinematograficamente parlando, è di quelli estremamente ghiotti soprattutto per le corde di un regista sempre interessato a sondare tutte le possibilità voyeuristiche della mezzo-macchina da presa. Se la storia di Carrie White può dunque essere (ri)letta alla luce dei concetti-chiave di colpa, vergogna ed espiazione (familiare, sociale e generazionale), allora anche l’horror può diventare territorio ideale dove rappresentare, nonché estremizzare visivamente, gli stessi. “Carrie”firmato De Palma diventa così un piccolo ma ideale avamposto per rappresentare questo suo particolare “sentire” (ma soprattutto “vedere”) cinematografico. Non a caso molte sequenze del film risultano tecnicamente costruite sulla giustapposizione di punti vista dal diverso significato.
Si veda da subito il “disinibito” incipit del film, in cui l’esibizione dei corpi delle ragazze nello spogliatoio si contrappone da subito al mortificato isolamento di Carrie sotto la doccia, una sequenza resa intensissima da un ralenti fluido, diluito e quasi erotico. Postura curva e capelli sulla faccia la povera “Carrietta” attraversa poi i luoghi della storia come fosse sbirciata costantemente da un occhio malevolo, mentre il regista provvede spesso ad inquadrarla in primi piani ravvicinati, con i protagonisti che agiscono dietro di lei sempre a fuoco, quasi a voler amplificare il senso di distacco da un mondo che trama costantemente alle sue spalle.
Un’atmosfera di persistente intimidazione, spesso accompagnata dagli isterici gridolini delle compagne, che rallenta solo nel momento in cui per lei inizia a profilarsi la svolta ( la presa di coscienza del proprio potere, i primi semi di un’accettazione sociale, l’invito al ballo, un possibile sentimento). L’occhio di De Palma ci accompagna, sempre più “coinvolto”, attraverso questi mutamenti, quasi a voler seguire il rigoglio emotivo di una simile rinascita (e il culmine, cinematograficamente parlando, è rappresentato da un magnifico e struggente carrello circolare durante il ballo, sequenza in cui gli spettatori “danzano” letteralmente insieme alla protagonista partecipando alla sua Prom Night da sogno).
Ma la meraviglia dell’amore precede di poco quella dell’orrore. Perché il regista, dopo questa parentesi sognante, imbastisce successivamente il momento più crudele della storia (lo scherzo della compagna Chris, lei sì autentica incarnazione del male) e lo fa attraverso una delle sequenze alternate (cerimonia di premiazione-preparazione dello scherzo- tentativo di sabotaggio di quest’ultimo) più vertiginose, musicali e geometriche di tutta la sua filmografia. Il resto è storia.
Ralenti da gelo sulla schiena, Carrie trasfigurata in Erinni impietosa e uno split-screen tagliente ed inesorabile. Ancora più decisivo poi il suo utilizzo nel pre-finale in quanto espediente attraverso il quale la protagonista, dopo un’esistenza trascorsa mantenendo gli occhi bassi o dietro un “sipario” naturale di capelli, può riappropriarsi finalmente di un punto di vista su quel mondo che l’ha derisa una volta di troppo. Il suo.
“Lo sguardo di Satana” in fondo è tutto racchiuso in questa sequenza. E non soltanto perché è qui che esplode una furia cieca, distruttiva e priva di indulgenza perfino verso i “buoni”, ma soprattutto perchè, molto “diabolicamente”, De Palma finisce per sovrapporre il suo sguardo a quello di Carrie, offrendogli contestualmente il mezzo più potente per vomitare la sua vendetta sopra quello sterco di provincia: gli dona una “visione” che perfora luoghi, materia e corpi.
E alla fine sembra quasi che il regista “voyeur” e la sua reginetta insanguinata realizzino entrambi i propri obiettivi (annientare i colpevoli e sovvertire i punti di vista) attraverso il medesimo istante di puro e grandissimo cinema. La morte può davvero essere meravigliosa quando a filmarla c’è lo sguardo seducente di un regista incredibile. Valeva la pena “rileggerle” personalmente quelle 175 pagine di manoscritto se il risultato, a distanza di quasi quarant’anni, è un tale inattaccabile capolavoro.