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Cartas da guerra: recensione in anteprima del film in Concorso a Berlino 2016

Raffinato ma pesante esperimento quello di Ivo M. Ferreira, che con Cartas da guerra cerca la poesia senza però trovare la chiave giusta

pubblicato 15 Febbraio 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 08:42

L’orrore della guerra, mista alla lontananza dagli affetti. Si è soliti accostarsi a questa idea pensando al carnaio che una guerra produce, la paura, il sangue, la morte; e sebbene non ci sia bisogno di averne preso mai parte per rendersi conto che il distacco dai propri cari possa rappresentare uno dei drammi peggiori, non ci si sofferma mai abbastanza su questo aspetto. O almeno, cavandoci raramente un granché.

Cartas da guerra, da par suo, coltiva parecchi intenti, tutti lodevoli ma al tempo stesso gravosi. Parla di una pagina di storia grossomodo recente, ovvero la guerra che i portoghesi hanno combattuto in Angola, dando a vedere che gli strascichi non sono ancora del tutto rientrati. C’è l’elemento psicologico, se vogliamo, ancora più centrale, cui fa capo la seguente domanda: come vivono una situazione di questo tipo due persone che si amano?

La risposta di Ferreira è un’elegia di immagini che si fondono con le parole, quelle riportate nelle tante lettere che Antonio e la sua giovane moglie si spediscono a vicenda. Visivamente sublime, con un ammaliante bianco e nero che intensifica quel costante senso di nostalgia che entrambi gli amanti stanno sperimentando. Ma che ben si adatta pure al contesto, una guerra che, come spesso capita, i soldati portoghesi stanno combattendo senza averne realmente interiorizzato i motivi.

Antonio è un medico, ma in quel contesto non è il professionista bensì l’uomo nella sua interezza ad essere messo alla prova. Ed è dura non lasciarsi andare quando si vive una situazione così surreale, straniante come una guerra coloniale in cui ci si vede peraltro nei panni della fazione forte, quella destinata ad avere il sopravvento sull’altra. Scrivere alla propria sposa, aprirsi totalmente a lei, con un misto di tenerezza e disperazione, diventa perciò l’unico canale con il mondo, quel sottile filo che lo tiene ancorato alla realtà, se con questo intendiamo il restare “sani”.

Descrivere meglio di così il dipanarsi della trama non è possibile, oltre a vanificare l’intento poetico di Ferreira, che c’è, si lascia piacere ma non sempre seguire. Sembra, specie all’inizio, un Malick in versione ridotta, con in meno i colloqui interiori, qui soppiantati dalla lettura a voce alta delle missive. Affascinante nell’immediato, meno incisivo, se non addirittura debole quando si comincia a sentire la necessità di dare un significato a quel miscuglio di immagini, parole e suoni. Esito opposto, per esempio, rispetto a La sottile linea rossa, con il quale si riscontrano similitudini non da poco, salvo che la potenza evocativa del film di Malick arricchisce la comprensione, aggiungendo senso ad un discorso diversamente impossibile da seguire.

Con Cartas da guerra funziona diversamente; in cui sì, si viene accarezzati dalla tenera prosa delle varie lettere, senonché il loro sovrapporsi ad un certo punto tende a distrarre, quasi che immagini e parola non si legassero a dovere. Esperimento perciò riuscito a metà, che non trova nella poesia quello strumento capace di impreziosire il racconto, per le ragioni di cui sopra. A tratti addirittura pericolosamente compiaciuto, ché di solito è sintomo di scarsa sincerità. Ma non è una colpa: Ferreira riprende delle lettere pubblicate da Antonio Lobos Antunes nel 2005, dunque non può che limitarsi a cogliere le implicazioni artistiche di un resoconto basato su un’esperienza che lui ha quindi vissuto per interposta persona.

Ma la poesia è qualcosa di estremamente personale. Non si scappa, purtroppo. Malick (sempre lui) riesce in certe operazioni non solo per la maestria che gli è propria ma soprattutto perché parla di storie che conosce molto bene, perché le ha attraversate di persona. Diversamente non si può aspirare a tanto. Ferreira è bravo, ed il suo Cartas da guerra non è mero esercizio di stile. Ma convince di più nella misura in cui non cerca di convincerci di conoscere per davvero quei personaggi, di capire a fondo cosa li muova. Non a caso il film si mostra più solido in quei passaggi in cui l’azione viene descritta in maniera più diretta, scevra da elementi aggiunti che ne amplifichino artificiosamente il loro significato.

Tabu, quattro anni fa, scelse quella strada lì, impersonale, saggia. Quello di Gomes è un gran film, senza nemmeno accettare chissà quali compromessi, dato che si tratta di un lavoro complesso. La differenza sta nella miscela, che Ferreira non riesce a controllare con la stessa padronanza di Gomes. Ed il risultato è troppo imperfetto per farsi bastare gli elementi che funzionano. Davvero non c’era modo di rendere l’esposizione delle lettere meno invasiva e più accattivante? A queste condizioni monta il sospetto che ci si voglia dare un tono e nulla più, il che è un peccato, prima ancora che essere pesante.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]

Cartas da guerra (Portogallo, 2016) di Ivo M. Ferreira. Con Miguel Nunes, Ricardo Pereira, Tiago Aldeia, Margarida Vilanova, Welker Bungué, João Arrais, Simão Cayatte, Pedro Ferreira, João Pedro Vaz, João Veloso, Gonçalo Carvalho, Sérgio Sá Cunha e Nicolas Brites.

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