Cenerentola: recensione in anteprima da Berlino del film con Cate Blanchett
Sorpresa alla Berlinale. “Cenerentola” non è affatto l’ennesima, velleitaria trasposizione fiabesca. Al contrario, trattasi di una delle più riuscite da anni a questa parte, con una Cate Blanchett meravigliosa
O le fiabe. Se solo al cinema, negli ultimi anni, non si fossero il più delle volte trasformate in sterili storielle senza né capo né coda, si sarebbe potuto consigliare anche di accedervi attraverso i film, stante il proposito di recuperarne il testo non appena possibile. Di Cinderella non convinceva quasi nulla; eccetto Cate Blanchett magari. Alice in Wonderland, Maleficent, Mirror Mirror, Il grande e potente Oz, Biancaneve e il cacciatore etc. etc. Tutti film tratti da classici, siano essi fiabe o racconti, che non hanno convinto a pieno: sufficienti nei migliori dei casi.
Altro campanello d’allarme la presenza di Kenneth Branagh, il Branagh di Thor o di Jack Ryan, per intenderci; non l’ottimo interprete di Shakespeare sul grande schermo. Che il suo impiego in Cinderella fosse un rischio lo si poteva perciò dedurre a priori; a posteriori confermiamo l’adagio per cui il grado di successo è commisurato pressoché sempre al rischio. Senza troppi giri di parole, infatti, Cinderella è la più riuscita delle operazioni nella sua categoria da anni a questa parte. Uno di quei film in cui, se non è tutto giusto, quasi nulla è sbagliato.
La fiaba la si conosce un po’ tutti; per i meno fortunati, si tratta di una giovane ragazza, di buona famiglia, che dopo aver perso la madre assiste impotente, per amore del padre divenuto vedovo, alle nuove nozze di quest’ultimo. Lady Tremaine (Cate Blanchett), la matrigna acquisita, porta con sé nella magione di Ella (Lily James) le due insopportabili figlie viziate, facendo calare le tenebre sull’esistenza della giovane e bella orfana. Sì, perché di lì a poco morirà anche il padre di Ella, partito per un viaggio di lavoro dal quale non torna più.
«Sii gentile e coraggiosa. Perché c’è più gentilezza nella punta del tuo dito che nell’intero corpo di tanti altri», dice la madre di Ella prima di lasciarla. Raccomandazione che risuona costantemente nel cuore e nella testa della figlia, per la quale invidia, odio e cattiveria di ogni tipo sono sentimenti quasi sconosciuti. Nelle fiabe, ambigue per definizione, le sfumature non vanno mai ricercate nei profili dei personaggi; sono le storie, le sue dinamiche, ma soprattutto le conclusioni a non darci coordinate precise, alle volte sfuggenti all’inverosimile. Tuttavia la fiaba di Cenerentola non rientra tra quelle più oscure, anzi. Il che rappresenta una sfida ulteriore alla luce di una qualunque trasposizione, perché quando non puoi nemmeno giocare su quell’alone di mistero che contraddistingue buona parte delle fiabe, cavare fuori qualcosa d’interessante è un’impresa.
Ed allora Branagh opta per l’approccio più intelligente: niente stravolgimenti, né colpi di testa per fare vedere che siamo originali e la nostra visione è più accattivante della fonte stessa. Anche a costo di dire uno sproposito, ci pare che l’essersi accostati al testo con una sorta di umiltà rappresenti la vera carta vincente. Questa versione di Cinderella, al di là dell’aderenza in toto o meno, lavora su quegli elementi che possono davvero offrire un contributo aggiuntivo, specie in relazione al mezzo su cui “gira” tale trasposizione. L’humor tipicamente british appiccicato alla vicenda, mai molesto poiché equilibrato, rende piacevoli e spassosi certi passaggi: in alcuni casi giocando facile, come in tutte le occasioni in cui l’inquadratura si sofferma sui topini o sull’oca, in altre, invece, trovando l’uscita perfetta (quando a Cinderella viene chiesto perché le scarpette siano di vetro, la sua risposta, secca, è «perché no?»).
Così come non mancano scene impensabili al di fuori del grande schermo, che riescono pure alla grande: è questo il caso del rocambolesco rientro a casa di Cinderella subito dopo il ballo al Palazzo Reale, mentre zucca, oca, topini e lucertole vanno gradualmente trasformandosi in ciò che sono, a rotta di collo per giunta. Applausi a scena aperta al Berlinale Palast dopo questa sequenza, a mo’ di reazione liberatoria. Perché Cinderella, ad un Festival come questo, a questo punto, è esattamente ciò che ci vuole. Il film che tutti o quasi vorrebbero ma nessuno osa chiedere.
Ma prima di chiudere, due parole spendiamole su Cate Blanchett. O Cate! La sua matrigna è una stronza di prima, ma pur sempre dotata di una grazia e di una eleganza fuori parametro, merito esclusivo dell’attrice premio Oscar lo scorso anno. Si guardi Cinderella da qualunque prospettiva si vuole, e sebbene si tratti di un lavoro che si regge molto bene sulle sue gambe, con o senza la Blanchett non sarebbe la stessa cosa. Tanto che a un certo punto si passa pure sopra all’iniziale overacting della James, straniante di tutta prima.
Davvero, è dura trovare qualcosa fuori posto in Cinderella versione 2015. Tra i vari commenti sterili ci è capitato di sentire che si tratta di un film «troppo orientato ai bambini», oppure «alle femminucce». Che peccato. Peccato per chi denota una così scarsa fantasia, oltre che una supponenza che non può che danneggiare chi la coltiva. La fiaba (en passant, tale è pure Knight of Cups, anche lui presentato qui a Berlino) è un linguaggio universale, archetipico, che trascende epoche, luoghi e situazioni. Che si parli di principesse, di lupi, streghe o chiavi, i destinatari di queste storie siamo noi, ciascuno preso a sé stante. Ed è quasi commovente apprendere che al cinema c’è ancora speranza per loro, le fiabe. E di conseguenza anche per noi.
Voto di Antonio: 7½
Voto di Gabriele: 7
Cinderella (USA, 2015) di Kenneth Branagh. Con Cate Blanchett, Richard Madden, Lily James, Sophie McShera, Helena Bonham Carter, Stellan Skarsgård, Hayley Atwell, Holliday Grainger, Nonso Anozie, Derek Jacobi, Ben Chaplin ed Eloise Webb. Nelle nostre sale da giovedì 12 marzo.