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Cineblog intervista Umberto Lenzi, the King of B’s

Umberto Lenzi, autore amato da Quentin Tarantino, regista di cult come Milano odia; la polizia non può sparare e creatore della celebre maschera del Monnezza è l’ospite d’onore del Festival Internazionale Cortisonici, che si sta svolgendo in questi giorni a Varese. Lo abbiamo incontrato davanti a un paio di bicchieri di prosecco e l’intervista si

14 Marzo 2009 13:00

Intervista a Umberto Lenzi

Umberto Lenzi, autore amato da Quentin Tarantino, regista di cult come Milano odia; la polizia non può sparare e creatore della celebre maschera del Monnezza è l’ospite d’onore del Festival Internazionale Cortisonici, che si sta svolgendo in questi giorni a Varese.

Lo abbiamo incontrato davanti a un paio di bicchieri di prosecco e l’intervista si è presto trasformata in una chiacchierata sulla passione per il cinema, la storia d’Italia, sui progetti di ieri, di oggi ma anche di domani con un giovane regista, classe 1931.

Lei è famoso come l’artigiano del cinema all’italiana, oggi è ancora possibile fare film di genere?
Il sistema dello spettacolo è cambiato. Il cinema di genere è stato soppiantato dalla fiction, ci sono solo pochi film di genere in Italia, penso per esempio a Gomorra. Il cinema di genere oggi dovrebbe sperimentare, ultimamente ho visto Redacted di Brian De Palma, capace di mettere insieme linguaggi diversi, come cinema e internet. Quando penso a un film di genere, penso a questo. Il cinema però ha perso molto del suo mistero. Prima era fatto con macchine enormi, servivano luci potentissime. Per vedere quello che avevi girato dovevi aspettare anche tre ore, bastava una virgola fuori posto che dovevi rifare tutto, oggi con una videocamera in alta definizione giri quasi al buio senza luci. I mezzi sono cambiati, ma questo cinema mi interessa poco, è come girare coi telefonini…

La sua filmografia conta quasi settanta film in quarant’anni di carriera…
No, no, la interrompo subito! Sono sessanta! Alcuni sono apocrifi. Ci sono molte falsità sul mio conto. Mi attribuiscono una serie di pseudonimi che io non ho mai usato. Per esempio l’ultimo film che mi attribuiscono è Sarajevo inferno di fuoco che è stato fatto da un montatore e un produttore che hanno preso pezzi di un mio film, ne hanno rigirato alcune scene e l’hanno rimontato e non è firmato da me, ma chi lo vede riconosce scene del mio film e pensa che sia mio. Questo è un furto. C’è un film cinese che si chiama Bruce Lee riemerge dalla tomba, regia di Bert Lenzi, ma io mica l’ho fatto! Non so neanche chi era Bruce Lee. Come potrei fare causa a una società di Hong Kong? Spenderei un sacco di soldi…per che cosa?

Intervista a Umberto Lenzi
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Lei è famoso per i poliziotteschi e gli horror, ma ha girato molti alcuni film storici, uno anche in America con John Huston e Henry Fonda, Il Grande Attacco del 1978.
Io amo molto la storia e mi ferisce che questo film e gli altri due della trilogia sulla seconda guerra mondiale, che amo molto, siano in realtà quasi dimenticati nonostante abbiano uno sforzo produttivo molto superiore rispetto a film più famosi. C’è anche Contro quattro bandiere, girato tra Parigi e Almeria, sullo sbarco in Normandia. Ho avuto grandi soddisfazioni da quel film. C’è in particolare una scena, così spettacolare, che oggi non ricordo come abbia fatto a girarla e ancora non me lo spiego, un rastrellamento di partigiani con cinquanta tedeschi sulla Torre Eiffel a metà Agosto, pensate quanti turisti c’erano… Il terzo film invece è La Legione dei dannati con Jack Palance, un attore premio Oscar!

Fra i suoi film meno noti, quale è quello a cui lei è particolarmente legato?
Sì, il quarto film di guerra, Attentato ai tre grandi, del 1967. Racconta la storia di un gruppo di tedeschi che cerca di introdursi a Casablanca durante la conferenza dei tre grandi del 1943, quando si stabilì che l’Italia doveva arrendersi. Tutto il film è girato dove sono successi per davvero questi fatti. Mi fa molto dispiacere sapere che film come questo sono quasi dimenticati, è una ferita aperta.

Come è nata la sua amicizia con Quentin Tarantino?
Nel 1996 ho ricevuto una strana telefonata. Un uomo si è presentato come il figlio di Sylvester Stallone e diceva che era a Roma per girare a Cinecittà alcune scene di un film del padre (Daylight, N.d.R.) e avrebbe avuto piacere a incontrarmi. Quando ci siamo visti si è rivelato un grande fan dei miei film e aveva con se almeno venti vecchie locandine da far autografare per un suo amico, Tarantino appunto. L’amicizia con Quentin si è poi cementata al Festival di Venezia durante la rassegna The Kings of Bs dove hanno riproposto il mio Orgasmo dopo ventisette anni. Al pubblico piacque come allora, una gran soddisfazione.

Come si spiega che il suo cinema abbia più appassionati negli Usa che in Italia?
Pensi che a Massa Marittima, la mia città, ho appena ricevuto un premio che si chiama Nemo Profeta in Patria, mi sembra molto appropriato!

Pensa che il suo cinema sia politico?
In Milano Odia il personaggio di Tomas Millian è un vero anarchico. Io sono spesso stato etichettato come un regista di destra, ma non mi ci riconosco. Sono un libertario. La Banda del Gobbo è un film sulla diversità, per esempio. Fortemente critico sulla società borghese. È stata una sorpresa che questo messaggio sia passato inosservato, ma quando sei etichettato è dura fare cambiare l’opinione! Con Tomas inoltre c’è stata una rottura dopo quel film, lui avrebbe voluto virare al trash, alla farsa volgare. Sognava di diventare una specie di Serpico all’amatriciana e con Corbucci lo ha fatto ed è stato un fiasco.

C’è un progetto su cui avrebbe voluto lavorare, ma che poi non si sono realizzate?
Ho scritto un paio di sceneggiature che non sono riuscito a realizzare. Uno era Il ritorno del Gobbo, in cui il Gobbo che non era morto come sembrava, la banda cadeva in un burrone con l’auto, invece era nascosto in un convento di frati. Era una trasgressione che attaccava violentemente il lato più esteriorizzante della Chiesa, troppo scorretto per allora, un film anticlericale. Poi ho scritto una sceneggiatura sulla guerra civile spagnola, un po’ come Terra e Libertà di Ken Loach, anche se avrei scelto un punto di vista più libertario, meno marxista.

Da poco è uscito il suo romanzo giallo Delitti a Cinecittà
È un romanzo nato venticinque anni fa. Avevo appena vinto un premio a Cattolica per un racconto e ho pensato di scrivere un romanzo, che però è finito un in cassetto a lungo. È saltato fuori durante un trasloco, rileggendolo l’ho trovato molto valido e ho pensato di riscriverlo. Si tratta di un giallo ambientato nella Cinecittà del 1940. Io sono un grande appassionato di storia e questo libro è un po’ come leggere una storia del cinema di quell’epoca. È ambientato tre mesi prima della seconda guerra mondiale, durante le riprese del film La corona di ferro di Blasetti, che al Centro Sperimentale è stato il mio maestro. Il protagonista è un commissario cacciato dalla polizia perché antifascista che indaga su un delitto in modo privato. Le recensioni sono state molto buone e sto già pensando alla seconda parte!

Intervista a Umberto Lenzi
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