Ciprì e Garrone sono bravi ma il nostro tempo non è fatto di pance ciniche ma di facce da porco
L’editoriale di Italo Moscati su Reality e E’ stato il figlio.
Non ero a Cannes, e ho visto Reality di Matteo Garrone ma non alla Mostra, dove non è stato presentato neanche in proiezione speciale, bensì al Cinema Giorgione, l’unica sala di Venezia città, una multisala, alle 17.45 di sabato 29 settembre, il giorno dopo l’uscita ufficiale in tutta Italia.
Non c’era molta gente e non era colpa del bel tempo- il Lido scartato per assenza di sole- ma (forse) della giornata uggiosa, bagnata di goccioline ine ine, brividi di fredduccio d’autunno. Ho visto con interesse e però non ho amato il film; preferisco L’imbalsamatore e Gomorra, i precedenti dell’amico Matteo, bravo regista. Perché?
Intanto, il regista non mi è sembrato molto convinto del tema: rappresentare la burla inquinata di noia e narcisismo impoverito (letale però come l’uranio che viene sparato) del “Grande Fratello”. So che, in un primo momento, Garrone ha cercato di fare un film ispirato alle gesta di Fabrizio Corona, un tipo muscolare e tatuato, uno scassato boss dei paparazzi, salvato e poi cornificato da Belene dai molti Lat A e B, nonostante l’esibizione del dondolante pisello in un film documentario.
Credo che Matteo abbia tentato di scrivere una sceneggiatura con Walter Siti, poi hanno desistito. Una partenza sbagliata, segnata da una impresa impossibile e sbagliata: fare una nuova “Dolce vita” cinquant’anni dopo. Tutto è cambiato a Roma come a Napoli, nella corrotta ma elegante Via Veneto e nella sfasciata, sporca e lugubre città di Gomorra.
Avendo messo in moto un macchinone da presa, il regista ha ripiegato sulla storia di un simpatico pescivendolo, che arrotonda gli incassi cercando di vendere un cubo prodigioso e non funzionante elettrodomestico. Ma sogna di partecipare al “Grande Fratello” ed esibire il suo prodigioso talento trans nella vita (a un matrimonio fa faville con lunghe ciglia e parrucca, e big titts).
La storia scivola via dopo un inizio molto vivace, ambientato in feste di nozze capolavoro di kitsch. Promettente, secondo le letture di molti critici con cui non sono d’accordo. E’ proprio l’inizio a creare un approccio sguaiato e troppo compiaciuto nel grottesco, per cui il resto appare a poco a poco sfibrato, faticoso, irrisolto.
A me è piaciuto invece il finale, quando il pescivendolo riesce a entrare di nascosto nella fortezza della vanità, del non senso, del trionfo della realtà non realtà della tv, dei suoi riti, di un vuoto pieno di vuoti come una matrioska: i partecipanti, i loro amori, le chiacchiere, gli sforzi per vendersi come “personaggi” per poi “morire lì” a gioco finito.
Il pescivendolo dice tutto con le sue risatine, con una emozione trattenuta, in un groppo alla gola che scende a fatica. Il film “doveva” cominciare da questo punto e risalire, reinventare il trauma di una illusione scoperta, traditrice, infame, come è spesso la vita creata per e dalla tv.
Voglio concludere con una impressione che si sta rafforzando. Alla Mostra ho visto il film di Daniele Ciprì, bravo anche lui, ma deludente nello sviluppo del racconto in E’ stato il figlio. Un inizio anche in questo caso grottesco, bozzettistico, inutile, e ripreso pari pari dal “Cinico TV” che Ciprì fece anni fa insieme a Maresco. Un atto, anzi atti di rottura visivi e sonori, forti, capaci di invaderci con pance spropositate, seni maschili come pance, flautulenze concertistiche.
Garrone e Ciprì, che ripeto sono bravi, possono fare meglio. E inoltre possono ricordare che gli spettacoli degradati che mostrano ormai ci giungono sui video in abbondanza, passano per il gossip, trionfano nei montaggi delle foto di Pizzi (bravissimo) in Dagospia, nelle immagini delle centinaia di Batman che si sono ingozzati o si ingozzano nella politica e nell’antipolitica. Matteo e Daniele rischiano grosso: farsi affascinare da un’Italia che finiscono involontariamente per celebrare, ammaliati e distratti. L’estetica dei Batman de’ casa nostra. E dei tanti critici che ci credono e la elogiano.