Coming Home (Gui Lai): Recensione in Anteprima del film di Zhang Yimou fuori concorso a Cannes 2014
Nella Cina degli anni ’70 si consuma la tragedia di una donna che non riesce più a ricordare il volto dell’amato marito. Lacrime e sofferenza nell’ultimo film di Zhang Yimou
Cina, anni ’70. Un gruppo di ragazze esegue una coreografia di danza, e tra queste c’è la giovane e promettente Dandan. Anche molto ambiziosa, totalmente dedita al Partito, che venera come autorità suprema in un contesto in cui tutto è regolato da lui. La madre Feng Wanyu ed il padre Lu Yanshi non vivono più insieme perché quest’ultimo è stato bollato col marchio di appartenenza alla destra, costretto dunque a nascondersi.
Dandan non ha chissà quali ricordi del padre, ma scopre che i suoi genitori nonostante tutto continuano a vedersi. Sottoposti ad una sorta di interrogatorio preventivo, prendiamo atto delle due diverse reazioni alle velate minacce del funzionario di Partito, che sottolinea a chiare lettere quali possano essere le conseguenze per coloro che coprono dei dissidenti: la figlia, risoluta, dichiara che se dovesse avere la benché minima notizia del padre non esiterebbe a denunciarlo. Wanyu invece esita, pur sapendo a quale rischio un tale atteggiamento possa esporla.
Zhang Yimou pone qui le fondamenta di un discorso che porterà avanti per tutto il film, costruendo una cornice orwelliana (ma che non stentiamo a credere vera nella Cina dell’epoca) che nella prima parte suscita nello spettatore quel senso opprimente al quale dovrà far fondo più avanti. Quando? Allorché la decisa Dandan scopre che Yanshi e Wanyu si vedono ancora, approfittando di un punto di ritrovo dove manderà dei membri del partito. La cattura è devastante, classica nel suo schematismo, che dunque non può che funzionare.
Facciamo un salto. E’ trascorso del tempo da quel disdicevole evento. Dandan ha smesso di fare la ballerina, sogno su cui aveva riposto pressoché ogni sua speranza. Yanshi è tornato in libertà. Sembrerebbe arrivato il momento, dopo tanta sofferenza, di rivedere la luce. Macché. Wanyu è rimasta vittima di un trauma che le ha fatto perdere la memoria; in particolare non ricorda per nulla il volto di suo marito. La figlia, giusto per darle una mano, ha ritagliato tutte le foto del padre, evitando così che possa la madre possa un giorno tentare di riconoscerlo. Il vero dramma comincia da qui, cavalcando la frustrazione di Yanshi che lungo tutto il film cercherà di farsi riconoscere.
Questo è il terreno sul quale specula Yimou, che infarcisce oltre metà film di episodi strappalacrime, alcuni effettivamente toccanti, in ogni caso calcolati. Trasformando così Coming Home in un dramma televisivo, anche per via di una regia molto rigida nel suo classicismo. E di certo non si può dire che questo suo ultimo lavoro un pubblico non lo abbia, anzi: Gui Lai (titolo originale) è concepito pressoché esclusivamente per quel pubblico.
Bisogna essere oltremodo cinici per rimanere indifferenti a certi passaggi, mostrandosi distaccati, freddi davanti ad un uomo la cui vita è stata letteralmente rovinata, mentre cerca in tutti i modi di riguadagnare il suo posto. Ma tale e tanto è l’amore di Wanyu per il marito, che, non riconoscendo in Yashi un volto familiare, ogni sforzo o tentativo di stabilire un contatto diviene vano. Ed allora, realizzato quale sia il limite al quale possa aspirare, all’uomo non resta che raccogliere le briciole, mostrando un amore fuori parametro, lacerante per noi che assistiamo alla sua lotta quotidiana.
Viziato da un’impostazione spiccatamente teatrale, che davanti alla macchina da presa si traduce in una sorta di soap opera più costosa o giù di lì, questo dramma famigliare finisce col colpire proprio attraverso quella serie di situazioni a dire il vero un po’ ricattatorie. Alle quali, per carità, non sorprende si faccia fatica a resistere, ma che a lungo andare soffrono di ripetitività, fino a quel fulminante finale, senz’altro indovinato ma al tempo stesso poco incisivo così per come è maturato.
Nota a margine sulle potenziali critiche alla mancata, o quantomeno contenutissima critica al regime. E’ chiaro che a Zhang Yimou questa traccia non interessasse più di tanto, se non nella misura in cui se ne potesse servire ai fini del suo discorso, che verte sul sacrificio, la sofferenza che l’amore comporta. Specie a certi condizioni, appunto. La rassegnazione dei suoi personaggi tradisce, a conti fatti, un segnale di tipo politico: questa è la Cina di quel tempo, dove lo status quo andava solo recepito. Dunque l’unico margine d’azione resta quello di limitare i danni, scucendo poco alla volta un barlume di felicità limitatamente alle possibilità che si hanno. Una retorica vecchia, ma che in fondo sta tornando in voga in un periodo storico come il nostro. E che certamente ha un retrogusto di denuncia. Ma solo quello; l’obiettivo principale è commuovere, non importa come e perché. Ogni mezzo (narrativo o cinematografico) è lecito.
Voto di Antonio: 5
Voto di Gabriele: 4
Coming Home (Gui Lai, Cina, 2014) di Zhang Yimou. Con Gong Li e Chen Damoing.