Confessions: Recensione del film di Tetsuya Nakashima
A circa tre anni dall’anteprima al Sitges 2010, Confessions di Tetsuya Nakashima approda nelle nostre sale. Ritratto politicamente scorretto di una società, quella giapponese, che cambia e che soffre, filtrata attraverso una terribile storia di vendetta che non fa sconti.
C’è voluto un po’, ma alla fine anche noi ce l’abbiamo fatta. L’ultimo gioiellino targato Tetsuya Nakashima si è fatto vivo anche dalle nostre parti e, a suo modo, pretende di essere visto, ascoltato, esperito. Confessions non è film semplice; dura, per certi aspetti quasi repellente, la sua storia nondimeno ci lusinga per via di uno stile seducente, forte di una serie di misure da primo della classe.
Gergo scolastico, questo, del tutto pertinente all’opera, che si svolge e si consuma all’interno di una scuola. Le prime sequenze giocano magistralmente con lo spettatore, al quale non viene fornito alcun appiglio onde scorgere la tragedia che verrà propiziata di lì a poco dalla prima, tremenda confessione dell’insegnante Yuko Moriguchi. Un continuo avvicendarsi di immagini legate a doppio filo ad un contesto fin troppo gioviale, sospettosamente goliardico. Una classe di scalmanati ragazzini di terza media danno il peggio di loro nell’ambito di una classe dove vige una seppur contenuta anarchia, mentre la glaciale insegnante illustra tanto a noi quanto a loro l’abisso in cui la gioventù attuale sta vieppiù sprofondando.
Venti minuti e passa di puro esercizio estetico e funzionale, condotto con un’arguzia ed un’irriverenza tali da lasciare percepire appena la vena spiccatamente moralistica di questi primi frangenti. Il tutto enfatizzato da uno slow motion a cavallo tra il poetico e il pedante; in ogni caso fortemente evocativo. Premesse sublimi per la tragedia che di lì a poco si consumerà. La sin troppo controllata Yuko getta la maschera, e con un’inquietante freddezza proclama: «mia figlia è stata uccisa, e i due assassini sono in questa classe». È il gelo!
Quali che siano le attività niente affatto didattiche svolte dagli irrequieti alunni, l’atmosfera si solidifica, facendosi solenne. Questa è la prima confessione, la madre di tutte quelle che seguiranno lungo il corso del film. È possibile immaginare uno scenario più perverso? Forse. Tuttavia il processo destabilizzante che viene innescato da questa lapidaria affermazione genera un misto di sensazioni che è davvero difficile rievocare estrapolate dal contesto sin lì sapientemente costruito da Nakashima.
E comunque, maturiamo adesso che è proprio di vendetta che si tratta. Abbiamo voluto sommariamente descrivere queste prime battute in parte per la maestria con cui sono state girate e montate, in parte perché assolutamente funzionali ad un discorso solo apparentemente intricato, ma a conti fatti molto diretto. «Odio genera odio», dice il marito di Yuko, affetto da HIV ma non per questo poco lucido, anzi. La sua malattia parrebbe essere la prima «punizione» inflitta alla giovane insegnante, la cui portata nell’economia del racconto è immensa. La figura di Yuko (interpretata da Takako Matsu) è devastante: da sola tiene in mano le redini del gioco e dell’andamento in generale del film, depistandoci in maniera mostruosamente beffarda in più occasioni.
Tanto per cominciare all’inizio, quando spetta a lei delineare un contesto in cui i suoi allievi (e con loro la gioventù giapponese tutta) nulla hanno a che vedere con certi apostrofi angelici con i quali si è soliti evocarli; ribaltando la loro oramai perduta innocenza, ciò che ne viene fuori è una descrizione desolante perché sensibilmente viva. Stando a tale argomentare, se ne conclude che i ragazzini, lungi dall’essere al riparo dal marciume che li circonda, ne sono in una certa misura autori essi stessi, con la connivenza di un sistema che compie una mistificazione terribile, ossia quella di trattarli come delle creature celestiali a priori, dunque inabili anche solo a concepire alcunché di deprecabile. Un’aspra ed intellettuale critica ad una società che non tollera più qualsivoglia tipo di autorità? Può darsi. D’altronde l’abbiamo già evidenziato: il Nakashima di questa lunga prima parte non disdegna un certo moralismo, che spiattella in faccia a tutti senza troppo curarsi di certi maître à penser contemporanei.
Ma se questa premessa spiazza, di certo s’ha da reggersi forte con il complesso susseguirsi degli eventi. Di tutta prima si è portati a pensare che, d’ora in avanti, tutto si giocherà su questo anonimato, che alla fine ci condurrà all’individuazione dei due assassini, ironicamente denominati Studente A e Studente B. Qui Nakashima è spietato: con le potenti parole di Yuko in voice-over scorrono immagini in cui vengono mostrati in dettaglio gli schermi dei presunti innocenti ragazzini, che si scambiano sms con su scritto frasi del tipo: «Io so chi è il colpevole», chiosati da emoticon a forma di cuore. Attraverso escamotage di questa portata ci viene filtrata l’assoluta ambiguità di questi ragazzini, per i quali l’intera vicenda altro non è che l’ennesimo gioco.
Eppure passano pochi minuti ed i due colpevoli vengono scoperti alla luce del sole: ora tutti sanno di chi si tratta. Qui ha inizio quell’aberrante processo vendicatorio, che, come nella più classica delle tragedie, chiama a sé altre vendette, altro sangue. Ma questo è solo il primo degli stravolgimenti in corso d’opera. Da questo punto in avanti la narrazione inanella una cospicua mole di analessi che vanno gradualmente a colmare quei buchi di volta in volta lasciati vuoti al fine appositamente di accrescere la colpevole curiosità di noi tutti.
Pur realizzando che ciò che va consumandosi sotto i nostri occhi ha un che di profondamente sbagliato, fino all’ultimo istante ci viene per certi aspetti impedito di prendere una posizione netta. Confessions è un costante avvicendarsi di rimescolamenti, di episodi angoscianti che si coprono l’un l’altro, lasciando lo spettatore inerme, in balia di una vicenda dai contorni resi ancora più opachi da determinate scelte di regia ben precise. Plauso a tal punto doveroso per l’oltremodo brillante fotografia, oltre che per l’abile uso e dosaggio della colonna sonora. Ma s’impone pure l’obbligo di evidenziare la pregevole costruzione della pellicola, che oscilla tra più tonalità; dalla commedia nera al dramma, sconfinando nel grottesco senza mai abbandonare il melò.
È esattamente qui che Confessions esplode, disseminando di schegge tutto ciò che lo circonda come quella bomba artigianale di fine pellicola; quella di Nakashima è una miscela altamente instabile, pronta ad esplodere in qualunque momento, ma costantemente disinnescata, e proprio allo scadere del tempo. Così, anche quando si ha l’incontrovertibile impressione che l’esplosione sia avvenuta, il regista nipponico ci gioca l’ultimo dei suoi diabolici scherzi: quando, tenendo saldamente in mano il detonatore, ci congeda definitivamente canzonandoci per l’ultima volta con fare splendidamente sfrontato. E noi lì ad applaudire per come ci viene somministrato quel vortice di turbamento.
Voto di Antonio: 9
Voto di Gabriele: 9
Confessions (Kokuhaku, Giappone, 2010) di Tetsuya Nakashima. Con Takako Matsu, Yukito Nishii, Kaoru Fujiwara, Masaki Okada, Yoshino Kimura, Mana Ashida, Kai Inowaki, Sora Iwata, Daichi Izumi, Karin Katô e Takuya Kusakawa. Nelle nostre sale da giovedì 9 Maggio.