Courmayeur 2012: Los salvajes – la recensione (Concorso)
L’argentino Alejandro Fadel porta a Courmayeur uno dei film più particolari di questo Festival. A voi la recensione in anteprima di Los salvajes
Unico film sudamericano in Concorso, Los salvajes contribuisce in maniera rilevante al respiro internazionale di questo Festival. Opera prima di Alejandro Fadel, tende a prestarsi davvero poco a descrizioni di sorta, poiché palesemente pensato e costruito per essere impresso espressamente su pellicola e non su un foglio di carta. Non a caso alcune delle lacune più evidenti, se così possiamo definirle, risiedono proprio in una sceneggiatura un po’ ruvida, che a più riprese mette a repentaglio una messa in scena che ha davvero un suo perché.
La storia tratta di un gruppo di ragazzi che scappano da un riformatorio, per inoltrarsi in un ambiente duro come quello della foresta. Cinque individui, ognuno di loro con molteplici personalità fluttuanti. Ragazzi che, per un motivo o per un altro, non sono ancora riusciti a trovare il proprio centro. Ecco, Los salvajes si atteggia esattamente a romanzo di formazione, orchestrato da episodi più che da un evidente filo conduttore.
Un film che non ha fretta di arrivare dritto al punto, concedendosi tempi alquanto dilatati (talvolta troppo!). Altro lavoro a suo modo spinoso (insieme a Berberian Sound Studio), che richiede un’attenzione emotiva forte, senza fare sconti. Potrebbe rivelarsi la vera sorpresa di quest’anno qui a Courmayeur, più che altro poiché inaspettata, anche se a nostro parere non riesce a convincere del tutto.
Il viaggio che segue la fuga di questi cinque ragazzi “difficili” è di quelli che, un po’ banalmente, potremmo definire interiori. Con Los salvajes Fadel si fa carico di portare a termine un’impresa oltremodo impegnativa, di cui non si può non apprezzare anche il solo tentativo. Tuttavia, questo è quanto emerge quasi immediatamente dopo i titoli di cosa, forse il regista argentino avrebbe necessitato di una maturità maggiore per portare sullo schermo un’opera così ambiziosa.
Perché ambiziosa lo è. Mettendo da parte gli ineludibili e scontati rapporti tra Uomo e Natura, Civiltà e Barbarie, la sfida non si limita al semplice farsi portavoce di certe istanze. Fadel conduce un’operazione fortemente simbolica, giocata su una lunga serie di metafore più o meno riuscite. Spesso però, in questo suo astrarre, calca maldestramente la mano, finendo per dare vita a sequenze sin troppo ermetiche per filtrare senza intoppi.
Se a quanto appena evidenziato aggiungiamo una storia eccessivamente diluita in troppe parti, capite bene quanto tutto ciò rischi di appesantirne la visione. Eppure qualcosa c’è, e lo avvertiamo per quasi tutto il film. Sotto quella congerie di artifici allegorici, giace una strana ma accattivante forza. Al cuore di Les salvajes si trova un carattere impetuoso, oscurato, se non addirittura soffocato, da una massa indefinita di materiale.
Il taglio quasi documentaristico di questa pellicola ci sembra invece azzeccato: l’intera descrizione degli eventi, più che narrazione, procede proprio su tale binario. Fadel si relaziona al proprio soggetto nello stesso modo in cui certi studiosi si avvicinano a quelle bestie di cui vogliono carpire ogni più recondito mistero. A tutti gli effetti un documentario, dunque, esattamente come quelli che passano su certe emittenti apposite: l’unica differenza è che in questo caso la specie in esame è l’uomo in preda ai propri istinti, scevro da qualsivoglia costruzione postuma alla sua nascita.
D’altra parte il titolo parla chiaro; quelli descritti sono selvaggi, giovani informi nell’aspetto e nel carattere, in balia del proprio passato e del proprio futuro, limite che impedisce loro di vivere e decifrare il presente. L’evocativa fotografia ci inserisce in quel contesto, dinanzi al quale comunque non possiamo che porci come corpo estraneo. Impensabile per noi civili e civilizzati immaginarci nei panni di quei ragazzi. Quest’ultimi li vediamo condurre il proprio viaggio come fossero delle bestie; nudi, costantemente sporchi, malnutriti. Tematica, questa, che ricorda molto da vicino alcune di quelle che stavano più a cuore ad un cineasta come Nicolas Roeg, troppo frettolosamente archiviato dai più – del quale Fadel non condivide neanche alla lontana certo spirito visionario, ma che quanto a tenore un po’ gli si avvicina.
Inquadrature strette, talvolta strettissime, ci confermano quanto vi abbiamo fatto notare poco sopra. Primissimi piani e dettagli a gogò tradiscono questo interesse viscerale del regista verso il proprio oggetto di studio, dentro il quale, se solo potesse, entrerebbe volentieri (letteralmente). Fadel vuole vedere i suoi protagonisti, e di conseguenza mostrarceli, così per come sono.
Ma tra sogni acerbi ed episodi bislacchi, non tutti riescono ad integrarsi al contesto dal quale sono circondati. L’unico modo per restare ancorati a quel mondo è viverci in perfetta simbiosi; ecco allora che indossare un cinghiale non è un’esigenza mossa dal desiderio di coprirsi, bensì da quella di indentificarsi, spontaneamente. Non con l’animale in questione, ma con il suo ambiente, col suo modo di stare in quel posto a quelle determinate condizioni.
Los salvajes è senz’altro il film più spigoloso al quale abbiamo assistito al Noir in Festival sino ad ora, non c’è dubbio. Una pellicola che richiederà un metabolismo piuttosto prolungato per essere assimilata a dovere, per via di questo suo scorrere lento, a tratti angosciante. Quel che è certo è che prima o poi bisognerà tornarci. Ma non subito.
Voto di Antonio: 6
Los salvajes (Argentina, 2012). Di Alejandro Fadel, con Leonel Arancibia, Sofía Brito, Martín Cotari, César Roldan e Roberto Cowal.