Crisis, recensione, blanda ed inefficace denuncia contro l’industria farmaceutica
Gary Oldman, Armie Hammer e Evangeline Lilly protagonisti di Crisis, thriller di denuncia asettico diretto da Nicholas Jarecki
Una battaglia combattuta su tre fronti, quella di una madre a cui pare abbiano ammazzato il figlio, facendolo passare per un’overdose; quella di un poliziotto infiltrato la cui sorella si trova in un centro per tossicodipendenti; quella di un dottore e ricercatore che si mette contro una multinazionale perché quest’ultima non vuole prendere in considerazione un suo studio. Crisis, ci viene detto subito, è ispirato da eventi realmente accaduti. Col tempo abbiamo dovuto fare i conti con una simile etichetta, non di rado ricattatoria, o quantomeno deresponsabilizzante, ma proprio a priori, a prescindere da cosa gli autori ci abbiano costruito sopra.
Il patto tacito con lo spettatore è che ciò a cui si sta per assistere si basa su qualcosa di reale, più che vero, per quanto tuttavia romanzato, d’altra parte pur sempre di finzione si tratta. Ancora di più se si adotta un linguaggio decisamente convenzionale, quello del thriller alla maniera di Hollywood, incalzante, panoramiche sui grattacieli, dialoghi (fin troppo) impeccabili. C’è sempre quel retrogusto lì, il non riuscire mai davvero a entrare in una vicenda che a dire il vero sarebbe pure interessante; anche perché, va detto, i codici diventano anche lo strumento attraverso cui s’instrada lo spettatore, creando sempre quella netta separazione tra e eroi e villani, senza sfumature, senza approfondimenti di sorta. Si guardi all’epilogo di tutti e tre i protagonisti: a parte uno, forse, suonano tutti insinceri, posticci, poiché incerta è la morale. E come potrebbe essere altrimenti? Se non altro perché lì ci si arriva a tentoni, a marce forzate, privandoci della benché minima chance di rapportarci come si deve alla minaccia, al pericolo che ciascuno di loro corre nel prendere le decisioni che vengono prese. Limite non da poco, che informa l’intera impalcatura.
Man mano che scrivo e tiro fuori qualche considerazione su Crisis, mi rendo conto che un certo approccio lo si potrebbe avere con buona parte di quei titoli che, almeno fino a dodici mesi fa, uscivano nelle sale. L’immancabile messaggio conclusivo, che anticipa appena di qualche istante i titoli di coda, rivela ciò che in corso d’opera è stato urlato in modo composto (il che rende tutto ancora più inadeguato), ossia che a causa di farmaci oppioidi muoiono centomila persone l’anno (e chissà quale sarà stato il dato dell’ultimo anno); solo negli ultimi due anni è morta più gente di overdose che in Vietnam. Insomma, si tratta di una guerra.
L’intento perciò non può che essere giusto, o quantomeno condivisibile: è assurdo che si muoia per via di qualcosa che dovrebbe aiutare a vivere. Una contraddizione che suona molto naif, è evidente, ma non meno ingenuo è credere nell’efficacia di un racconto focalizzato su situazioni che, per forza di cose, ti promette in partenza di restare in superficie. A partire proprio da alcune riserve che si potrebbero opporre proprio in relazione al metodo; capisco non si tratti di un’indagine, ciononostante lasciano perplessi dei profili così raffazzonati, privi di coordinate, che non consistono, si badi bene, nel mero snocciolare informazioni. La bella Evangeline Lilly la si vuole madre devastata, con un passato da abuso di farmaci, epperò, al di là del poco trucco, è sempre troppo in ordine (non mi riferisco all’aspetto fisico, bensì al portamento, insomma sì, alla recitazione); l’aitante Armie Hammer, chiuso tra due fuochi, non può andare oltre il regalare un tono di voce basso, quasi colonna sonora aggiunta, ed una serie di pose e sguardi da passerella; un po’ meglio Gary Oldman, il quale comunque non può che limitarsi ad assecondare la parte, remissivo il suo Tyrone, con qualche exploit estemporaneo.
Jarecki non ha ad ogni buon conto alcuna chiave attraverso cui leggere gli eventi: che indovini i tempi, senza particolari sbavature, o che tutto sommato il discorso si lasci seguire, non supplisce alla mancanza di tono. Vengono in mente due film, uno su questa falsa riga, ossia Cattive acque, uscito un anno fa; l’altro, più recente, è Fino all’ultimo indizio. Col primo c’è continuità quanto al tema sollevato, cioè l’avidità della multinazionale di turno, disposta per profitto a mettere a repentaglio la vita di centinaia di miglia di persone; un film che esce dallo stesso ambiente, espressione di logiche pressoché identiche, eppure lì Todd Haynes, pur dovendosi adagiare su tutto ciò, riesce ad imprimere qualcosa, non un timbro, un marchio o che so io… qualcosa nondimeno di tangibile, passasse anche per alcune singole scene, che alla fine ne elevano quel tanto che basta il tutto. Il secondo invece ci fa gioco più per una questione di genere, e perché in fin dei conti anche in quel caso siamo in quella media che fa rima con mediocrità. Eppure, tra un Washington a mezzo servizio e la rievocazione di un certo modo di accostarsi al thriller, qualcosa d’interessante si trova, anche se poi tutto il resto è forzato e aleatorio, dalla costruzione della vicenda alle performance degli altri protagonisti.
Insomma, sia Cattive acque che Fino all’ultimo indizio riescono almeno ad alzare un po’ la testa, ci provano, e lo si percepisce. Crisis invece va sistematicamente sul sicuro, non vuole sbagliare una cosa che sia solo una: da qui l’atmosfera rarefatta che si avverte dalla prima all’ultima sequenza. Certo, solleva questioni forse mai come adesso rilevanti, ma su ciascuna di queste non sa in alcun caso come regolarsi, né credo vi sia mai stata la possibilità che Jarecki, in qualsiasi fase del processo, abbia avuto modo di riuscirci. Non contribuisce, credo, il fatto che si tratti in pratica di tre film in uno, tre storie attigue ma comunque separate, una sfida che si risolve in una narrazione alternata che non aggiunge alcunché ad ognuna, anzi, forse addirittura toglie.
Di tutto un po’, Crisis soffre sin troppo dell’assenza di sguardo, mancanza notevole alla quale non si vuole sopperire nemmeno attraverso altre soluzioni, quale poteva essere, per esempio, il lavorare con più attenzione sull’atmosfera, giocare un po’ sul non detto, integrando quel briciolo di ambiguità che non può far male, nemmeno in ambito mainstream. Peccato ben più grave alla luce proprio della premessa, trivializzata da un eccesso di scrupolo che ne ribalta le intenzioni, apparentemente encomiabili. Se una cosa tocca apprenderla da questi ultimi dodici mesi, è che le vecchie formule non bastano più per riportare gli spettatori in sala; specie quando la realtà ha surclassato la finzione, e certo ricamare su strutture rodate nonché innocue è esattamente ciò che non andrebbe più fatto.
Crisis (USA, 2021) di Nicholas Jarecki. Con Gary Oldman, Armie Hammer, Evangeline Lilly, Greg Kinnear, Michelle Rodriguez, Kid Cudi, Indira Varma, Lily-Rose Depp, Mia Kirshner, Michael Aronov e Veronica Ferres.