Dario Argento: quell’occhio diabolico
Dario Argento, 73 anni, un nome già consegnato al mito e ancora tanta voglia di sperimentare e stupire. Perfino col 3D. E sebbene lo smalto non sia più quello di un tempo è impossibile resistere anche oggi al richiamo dei suoi film. Nella speranza, mai abbandonata, che torni ancora a dialogare con le tenebre. Proprio come faceva mirabilmente 40 anni fa.
Un musicista jazz, scrutando la foto di una casa chiamata la “Villa del bambino urlante”, si accorge che l’edificio da lui appena indagato ha in realtà quattro finestre e non cinque come nella foto. Una è stata murata, proprio come la stanza corrispondente. Lì c’è un segreto che attende di essere svelato, magari abbattendo la parete della stanza nel buio della notte. E la torcia, puntualmente, rivelerà a lui quello che nemmeno noi vorremmo vedere: un albero di Natale polveroso e ancora addobbato e un cadavere mummificato che lo presidia con le sue orbite vuote. Solo che in quell’istante lo sguardo della morte sta puntando anche noi spettatori, trapassandoci da parte a parte. E’ solo un attimo ma basta a precipitarci tutti negli abissi di un orrore muto, decomposto e accusatore.
Se dovessi scegliere una singola sequenza, o meglio “quella” particolare sequenza dell’intera filmografia di Dario Argento capace di sconcertare la mente e capovolgere un’ intera prospettiva sul cinema, sceglierei senza il minimo dubbio questa appena descritta. Perché in un colpo solo il regista, che fino ad allora aveva “semplicemente” tessuto le fila di un giallo ansiogeno e oscuro, decide di abdicare alla razionalità investigativa per abbracciare senza riserve il territorio della pura astrazione e della paura concreta. La svolta horror del maestro del brivido italiano forse sta tutta qui, racchiusa in una sequenza coltivata nel suo inconscio e rigurgitata sopra un pubblico ancora vergine in tutta la sua crudezza. Uno squarcio profondo come l’inferno e rosso come il sangue.
Il mito registico è qui che ufficialmente si consolida. Dario Argento diventa il “burattinaio” della paura, un’immagine che, manco a farlo apposta, trova la sua allegoria visiva proprio nell’automa di Carlo Rambaldi, anche questo ennesimo attacco alle viscere di “Profondo Rosso“. E’appena il 1975 e l’avanguardia per il maestro del brivido, già reduce da una mirabile “trilogia animale” che deve molto anche al cinema di Mario Bava, è solo appena iniziata. Perché gli anni ’70 sono quelli della sperimentazione, i più ”rivoluzionari” in ogni senso a partire dal linguaggio. La brama di sperimentazione per il maestro significa soprattutto dare ascolto ai propri incubi (vera ispirazione delle sue pellicole come confesserà nelle interviste) e tradurli quindi in una dimensione cinematografica concreta ed onirica al tempo stesso.
Da qui l’iperrealismo di pellicole come “Suspiria”, fiaba impregnata di suoni, cromatismi e architetture che non appartengono a questo mondo e ancora oggi fuori dal tempo, o l’intreccio rapsodico e irrazionale di “Inferno”, autentico grimorio per immagini che non chiede nient’altro che abbandonarsi all’oscurità e all’odore dello zolfo. Un dittico che, a parere di chi scrive, era già trilogia delle madri, senza bisogno di scomodarne una terza.
Dopo l’immersione in questo cupo e personale maelstrom si torna alla luce, quella abbagliante e traslucida degli anni ’80, con un giallo (“Tenebre”) che omaggia in parte se stesso e in parte la grande tradizione del passato, anche se questa viene filtrata dalla filosofia estetica di quegli anni (del resto come negare che l’omicidio in “Tenebre” sia soprattutto il pretesto per mettere in scena, con impeccabile perizia tecnica, il cinema stesso nel suo diretto “realizzarsi” dalla pagina scritta?). Ritorna impellente anche la necessità di tuffarsi nei territori della fiaba metafisica e “Phenomena”, pellicola successiva, diventa una novella quasi speculare a “Suspiria”: streghe, orchi e animali non mancano neanche qui, insieme a una nuova Biancaneve che invece di danzare parla con le creature meno amate da tutti (gli insetti).
Il successivo, e sottovalutatissimo, “Opera” rappresenta il primo tentativo di intrecciare il giallo con la tradizione letteraria (Gaston Leroux) e con quella operistica del Verdi più lugubre (Macbeth) e rappresenta anche l’unico e vero “Fantasma dell’opera” del regista (diffidare sempre del remake a sua stessa firma perché è “solo” un eccentrico film in costume). Qui l’onirismo del subconscio assassino è assai meno interessante dei virtuosismi registici con cui si filma l’opera a teatro e l’omicidio stesso. Ma musica e movimenti si fondono senza soluzione di continuità fuori e dentro il palco, stilizzando in modo mirabile quello che, a livello tecnico, resta l’apice della produzione argentiana di quegli anni.
Per molti l’ultimo film prima del declino. In verità, negli anni che seguono, il cinema di Dario Argento (che, per forza di cose, non può più essere il cinema degli anni ’70) ha finito per intrecciarsi prepotentemente con il proprio vissuto familiare. Così l’amore per la figlia Asia è diventato non solo uno dei leit-motiv costanti della sua produzione (nonostante il pubblico già la reputasse poco credibile come protagonista), ma anche l’occasione per rivisitare i suoi stessi generi. Si va dal giallo crepuscolare e a stelle e strisce di “Trauma” a quello freudiano e psicanalitico de “La sindrome di Stendhal” fino allo stesso “Fantasma dell’opera” dove la macchina da presa si aggira fra teatri e sotterranei con movimenti ingessati e assai lontani da quelli liberi e furiosi di “Opera”.
Gli entusiasmi si raffreddano progressivamente e il pubblico di Dario Argento, nel decennio più grigio prima del millennio, si dividono fra coloro che lo danno ufficialmente per decaduto e gli aficionados che ne seguono fedelmente le gesta, alla ricerca di un nuovo titolo che riporti lui e loro ai fasti e alle visioni del decennio più innovativo di sempre (gli anni ’70 appunto). Perché, diciamocelo, delle trame e dei personaggi ai fan del maestro non è che sia mai importato granchè. L’indulgenza nei confronti della modesta scrittura infatti passava già sin da allora attraverso l’amore sconfinato nei confronti dello stile e l’infuatuazione verso quelle coreografie omicide dal fascino perfino erotico.
Venuti meno quegli approcci sperimentali, i canovacci finiscono oggi per rivelare tutti i limiti di sceneggiatura portando alla luce personaggi mal sbozzati e situazioni alquanto forzate. Tutto perdonabile in nome del grande cinema. Soltanto che a difendere certi titoli recenti si corre il rischio di un linciaggio critico.
Pur tuttavia, anche di fronte a questi incontestabili segnali di involuzione, non si può negare che la tecnica e l’occhio (diabolico) del grande cineasta (r)esistano sempre e che, sovente, sappiano graffiare proprio come in passato. Perché non tutti sanno comunicare ansia attraverso sapienti controcampi alle spalle dei protagonisti (“La sindrome di Stendhal”), o roteare con la macchina da presa nel buio di una stanza in compagnia di un assassino invisibile (“Il cartaio”), o ancora orchestrare una fuga nei corridoi sotterranei per farla poi culminare nel vuoto sotto la città (“Giallo”).
Sono frammenti, istanti ma di quelli che rincuorano gli speranzosi e i nostalgici affezionati. Perché dimostrano che l’autore è vivo anche quando sembra essere stato sepolto dalle inutili chimere delle modernità (“Dracula 3D”). Per i suoi 73 anni dunque non gli chiediamo molto. Soltanto che ritorni a dialogare un po’ di più con le tenebre. 100 di questi incubi, Dario!