Dune, recensione, Denis Villeneuve imbocca il sentiero giusto
Timothée Chalamet nei non facili panni di Paul Atreides, diretto da quel Denis Villeneuve che ha reso Dune una trasposizione possibile
L’imperatore ha deciso: la gestione di Arrakis, anche conosciuta come Dune, va data al duca Leto Atreides (Oscar Isaac). Pianeta particolare, molto ambito per via di una spezia miracolosa, la cui gestione implica ricchezza e rilevanza, dunque potere. Ma qualcosa non torna: perché affidare alla Casa di Atreides un’area così importante, oltre che contesa? Gli ordini dell’Impero però non si discutono: si eseguono. Allora, pur consapevole del pericolo al quale espone sé stesso e la propria gente, il duca si adegua e decide quantomeno di condurre una reggenza degna di un governatore equo e illuminato.
In primis c’è da mettere a posto i rapporti con la popolazione locale, ossia i Fremen, «spietati ma leali», come riporta uno degli uomini più fidati del duca, Duncan Idaho (Jason Momoa); con loro solo distensione, facendo passare il messaggio per cui il nuovo corso non è interessato a sfruttare e sottomettere, bensì a rispettare sia l’ambiente che coloro che lo abitano. Tutto si complica allorché si consuma quanto da principio temuto, piega che mette a repentaglio il figlio del duca, Paul (Timothée Chalamet), e la sua concubina nonché madre del giovane, Lady Jessica (Rebecca Ferguson).
Dune al cinema si porta d’appresso uno stigma non da poco, sebbene la Rete negli ultimi anni abbia offerto non pochi appigli a quel flop trasversale che fu la trasposizione di David Lynch. Opera destinata a non avere pace, travagliata pure stavolta stando ai resoconti, per cui alla fine si è persino optato per una misura molto à la page qual è quella della divisione in due parti. Comprensibile, data la mole del libro, e, alla luce di quanto si vede in questa prima parte, pure opportuna.
La prima delle due iterazioni serve infatti ad introdurci non tanto al mondo di Dune, quanto alle peripezie di Paul, chiamato, come da tradizione, a riportare equilibrio in un universo che lo vede quale prescelto. Denis Villeneuve oramai si sta specializzando su questo genere di operazioni (apparentemente) impossibili, il cui coefficiente di difficoltà è reso ancor più significativo alla luce della natura del prodotto, ossia un blockbuster di centosessantacinque milioni di dollari che, specie in una fase di congiuntura come quella che stiamo attraversando, non può sbagliare.
Ed infatti il contributo del regista canadese non manca. Anche senza Roger Deakins, l’afflato epico, quel taglio visivo non di rado quasi concettuale, del nostro, resta intatto. Dune a tratti è composto da tavole che potrebbero essere appese alle pareti, per lo meno delle abitazioni di chi ama certa fantascienza. Anche qui bisogna aspettarsi la solita pulizia nel girare, le incalzanti panoramiche quasi sempre inserite nel racconto, mai fine a sé stesse ancorché stupefacenti. In tal senso ci troviamo dinanzi ad un’idea di magnificenza che solo a certi livelli ci si può permettere, ed ancora una volta la simbiosi tra Villeneuve e la macchina hollywoodiana si mostra solida ed efficiente.
Sappiamo anche, nondimeno, che per aversi un tale affiatamento c’è bisogno di registi che capiscano fino a che punto sia opportuno spingersi, ma soprattutto limitatamente a cosa. Nell’ambito di un’epopea che ha bisogno di due ore e mezza per arrivare a metà della sua storia, non sono infatti ammessi cedimenti, momenti di stanca o semplici diluizioni. Aiutato da un cast che asseconda più che con dignità una tale premessa, Villeneuve riesce a mantenere saldamente le redini della vicenda, tenendo desta l’attenzione e facendo convogliare più elementi verso il medesimo obiettivo, che è quello di agevolare la fluidità del racconto.
Alla base abbiamo infatti un intreccio basato sul mito, quello dell’eroe/prescelto destinato a far trionfare le forze del Bene su quelle del Male. Mutuando da elementi afferenti alla Tragedia, Dune ha proprio l’habitus del racconto universale, ennesima rielaborazione di schemi antichi, con cui ogni epoca può relazionarsi. Alla luce della portata del materiale, trovare la chiave giusta rappresentava evidentemente la vera sfida; una questione di equilibrio proprio, in cui sapersi regolare tra le soluzioni cui dà adito l’immaginario compresso in quel mondo e, banalmente, il succedersi degli eventi.
Non saprei dire fino a che punto quanto riportato nel libro sia stato semplificato o meno; quel che è certo è che il tutto è stato reso ampiamente accessibile, pur evitando quell’impronta caciarona, se non addirittura confusionaria, che un’abilità di discernimento meno raffinata avrebbe espresso senz’altro. In questo Dune c’è il rispetto per la fonte così come per lo spettatore, che però non viene “imboccato” più di tanto, anzi, il ritmo non di rado viene contenuto proprio per far fronte all’esigenza del momento. È tutto un gioco di leve e bottoni, capire quando tirare e quando premere, ma soprattutto come.
Non a caso già il solo non indulgere su un’eccessiva estetizzazione (riscontrabile qua e là in 2049), rendendo al contempo tollerabile uno scenario fatto di pochi e ripetitivi elementi, come tutto ciò che afferisce alla scenografia degli ambienti, mi pare un risultato non da poco. Se vogliamo, Villeneuve riesce persino a modernizzare certe formule rodate, per un film che a conti fatti non reinventa alcunché, anzi, si mostra debitore ed ossequioso di taluni stilemi, assecondano i canoni di certo cinema classico, attento, come già evidenziato, allo spettatore, senza però farsi limitare da un simile approccio. È esemplare come il nostro riesca non di rado a cogliere quei due/tre elementi peculiari del testo col quale si confronta, edificandoci sopra degli espedienti visivi ricorrenti e funzionali alla narrazione, che appagano su più fronti (qui si potrebbero citare i granelli di spezia, così come l’intera presentazione dell’approssimarsi dei vermi delle sabbie, il cui riverbero sulla superficie sabbiosa funge da vero e proprio tema visuale).
C’è chi potrebbe persino storcere il naso davanti a un simile controllo; il che si potrebbe persino comprendere, a patto di ammettere, contestualmente, che non vi fosse altro modo per rendere credibile questo lavoro se non mediante la capacità di dosare a dovere le varie componenti. Basti pensare che dopo due ore e mezza contrassegnate da azione, colpi di scena, ma soprattutto dal percorso di crescita di Paul, coinvolgente il giusto, senza invasive speculazioni e psicologismi, il desiderio di conoscere dove andrà a parare il discorso è tanto.
Tramite Dune Hollywood torna a confrontarsi come le compete con una delle cose che le riesce meglio, cioè la (ri)costruzione di mondi coerenti, retti da regole interne che non si vedono ma si percepiscono, l’unica vera matrice di verosimiglianza anche in rapporto a contesti di pura fantasia. Le condizioni per potersi spingere oltre, allo stato attuale, non ci sono, checché ne dicano coloro che ritengono operazioni del genere bastanti a sé stesse, scorporate da un progetto più ampio, che consta di due o più parti. Perché alla seconda parte, qualora si riuscisse a darle vita, s’imporrà il non facile compito di portare a maturazione quanto di buono disseminato in questa prima metà. Solo allora capiremo se il sentiero intrapreso troverà pieno compimento e Dune possa affermarsi quale fenomeno generazionale (ancor più tale in quanto rifacimento, dunque ancor più rappresentativo di un intero periodo).
Dune (Usa, Ungheria, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Norvegia, Canada, 2021) di Denis Villeneuve. Con Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Dave Bautista, Sharon Duncan Brewster, Stephen McKinley Henderson, Zendaya, Chang Chen, David Dastmalchian, Charlotte Rampling, Jason Momoa e Javier Bardem. Fuori Concorso.