Embers: recensione in anteprima
In un futuro in cui chi è rimasto in superficie ha perso la memoria, Embers s’interroga su cosa tutto ciò comporti per gli esseri umani. Sentimenti ed emozioni, infatti, a quale sfera appartengono?
Un ragazzo ed una ragazza si svegliano l’uno accanto all’altro. Il luogo è diroccato, i due spaesati, finché non arriva la domanda: «tu chi sei?». Embers prefigura un futuro simil-apocalittico in cui chi è rimasto esposto e non ha fatto in tempo a rifugiarsi in un bunker, soffre di una forma cronica di perdita della memoria. La regista Claire Carrè, qui al suo esordio, non è interessata a definire i contorni di questa particolare patologia, perciò è difficile dire quanto a breve termine sia la memoria; a quanto pare ciascuno la elabora a proprio modo: un calo d’attenzione piuttosto che più operazioni in una volta tendono ad azzerare quanto avvenuto precedentemente.
Come accennato, però, c’è chi si salvato, come Miranda e suo padre, che vivono da oltre dieci anni sotto terra, dandosi ad attività artistiche le più disparate: «dobbiamo continuare a fare ciò che ci rende più umani», dirà il padre. Embers segue più storie: quella di bambino su cui non è certo che la “malattia” abbia attecchito, un anziano signore che un tempo era un rinomato studioso, un giovane violento ed i personaggi già citati sopra. Non necessariamente le loro storie s’intrecciano; è tutt’al più un modo per assistere a questo mondo in disfacimento da più prospettive. Ed è un mondo credibile, vuoto, che trasmette un senso d’abbandono angosciante.
Tuttavia, se fosse tutto qui, Embers non avrebbe detto alcunché. Il punto è capire come la memoria si relaziona con la componente emotiva, quanto l’una incida sull’altra. I due giovani di cui sopra, che si svegliano nello stesso letto, hanno un braccialetto identico al polso: un indizio sulla natura del loro rapporto, che solo alla fine viene definitivamente chiarito. Chiarire però non è forse il verbo più adatto, in quanto la Carrè immette quel tanto di poesia che tende piuttosto ad esaltare le sfumature, rendendo il contesto quanto più ambiguo possibile (si veda la licenza del cavallo bianco). D’altronde, come loro non ricordano chi sono, sarebbe stato fuori luogo consentire a noi spettatori di risolvere la questione.
Come a ragion veduta anticipato prima della proiezione, il debito verso Stalker di Tarkovsky è palese, sebbene, chiaramente, Embers vada a parare altrove. Più che la tematica è infatti il taglio visivo a ricordare quelle atmosfere, componente a suo modo centrale del film, che trasmette più attraverso questo filtro piuttosto che qualunque altro. Si pensi al bunker di Miranda: minimal, di una pulizia ed un ordine che stona rispetto alla devastazione del mondo in superficie. Ed emerge qui una traccia molto interessante: per chi soffre di questi sbalzi di memoria tutto tende ad essere nuovo, quasi inedito; poi, in base all’indole, ciascuno reagisce a proprio modo. Chiave di lettura per nulla secondaria, specie in relazione allo sviluppo della traccia narrativa inerente a Miranda, la cui insofferenza effettivamente è anche la nostra.
Embers è un film che fa riflettere, dal respiro tutto sommato contenuto rispetto all’ambizione, certo, ma comunque riuscito. Alcuni piccoli frammenti di più storie che reggono bene per l’intero arco del film, in questo consiste il lavoro della Carrè. Un traguardo non da poco per una regista esordiente, che però tende a parlare solo a chi è seriamente disposto all’ascolto. Non sempre questo è un male.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
Embers (USA/Polonia, 2015) di Claire Carré. Con Jason Ritter, Iva Gocheva, Greta Fernández, Tucker Smallwood, Karl Glusman e Roberto Cots.