Éric Rohmer, oggi il centenario
Un breve ma sentito ricordo di Éric Rohmer, i cui cinquant’anni di carriera rappresentano uno dei più grandi doni al cinema di sempre
Esattamente cento anni fa nasceva Jean Marie Maurice Schérer, in arte Éric Rohmer, uno dei più grandi registi di sempre; o forse sarebbe più corretto dire “cineasta”. Sapete, Rohmer fa parte di una generazione per cui questa sorta d’indipendenza, quest’impeto autoriale, non era, almeno in larga parte, riconducibile ad una sorta d’oscuro esibizionismo, il voler imporre sé stessi con un approccio ego-riferito (che poi alcuni possano esserci cascati comunque, beh, è un altro paio di maniche).
Lo conferma il suo carattere schivo, la ritrosia con cui nel corso della sua carriera si è prestato alle sparute interviste che gli sono state fatte. Francese fino al midollo, ha coltivato sempre un rapporto alquanto complicato col proprio Paese, già a partire dal periodo presso i Cahiers du Cinéma, quando, racconta, gli allora redattori fecero di tutto per liquidarlo in quanto si rifiutava (insieme a Truffaut) di abbracciare quella linea radicale che alla fine prevalse, uno sfrenato modernismo sinistroide che effettivamente non era nelle sue corde, per usare un eufemismo. A tal proposito ebbe a dire: «non bisogna aver paura a non essere moderni… devi sapere come andare contro alle mode prevalenti della tua epoca».
Poco sopra si fa cenno all’attenzione con cui il nostro proteggeva la propria privacy, cosa che, diceva, era per lo più dovuta alla possibilità di girare i suoi film per strada, senza così correre il rischio di essere riconosciuto. «Io non dico, io mostro. Mostro persone che si muovono e parlano»; qui si riassume, anche se molto stringatamente, un programma di lavoro che, al contrario, era ben più complesso e articolato. Rohmer poteva preparare un film, scriverlo, per poi girarlo anche due anni dopo; arrivato il momento, però, era carico a pallettoni ed estremamente preparato. Si parla di parecchie prove con gli attori, cui seguivano pochissimi ciak, non di rado uno solo.
Nestor Almendros, altro fuoriclasse, celebre direttore della fotografia, raccontò di quella volta che Rohmer calendarizzò una scena mesi prima di girarla: la scena in questione si svolgeva sotto la neve e immaginate un po’? Esatto, nevicò, tutto il giorno per giunta. Senza tuttavia scomodare il soprannaturale, anche in ambito più terreno si può dire che il regista lasciasse granché al caso, sebbene, profondo ammiratore di Robert Bresson, anche Rohmer frequentava un cinema “altro”, diverso rispetto ai modi classici, a quella serie di procedure e convenzione del fare film che in qualche modo ne hanno tarpato le ali da un certo punto in avanti.
Ma se in Bresson, com’è noto, certo rigore si traduceva in austerità, in Rohmer tale esigenza, questa ricerca dell’essenziale, conduceva al conseguimento di qualcos’altro. Una leggerezza che nulla toglieva alla complessità dei temi trattati, storie scritte con una precisione invidiabile, in cui certa propensione ad un vago realismo non rappresenta che la scorza, senza mai risultare soverchiante. Nessuna réalité pour la réalité, solo un veicolo che appunto facesse filtrare nel modo meno ingombrante possibile la vita.
Professionista trasversale, che anche laddove non si è scostato dal grande schermo, non ha al contempo disdegnato di adottare soluzioni che oggi, in maniera diversa, sono di gran lunga più affermate. Tre le serie, a partire dai Sei Racconti Morali, per poi dedicarsi a Commedie e proverbi, fino ai Racconti delle quattro stagioni. Oltre trenta film, tra corti e lungometraggi, per una carriera che si staglia lungo oltre cinquant’anni.
Della sua costanza, integrità e coerenza si potrebbe pensare che tutto ciò coincidesse con una certa chiusura, anche alla luce delle critiche che, specie in Francia, gli sono spesso state mosse, in primis quella di essere troppo conservatore. Eppure nel 2001, appena due anni dopo Star Wars – La minaccia fantasma (1999), Rohmer propose qualcosa per certi versi persino più ardito da un punto di vista puramente tecnologico, con La nobildonna e il duca, girato in digitale con una tecnica sin lì pressoché sconosciuta, tesa a mimare, almeno quanto agli esterni, la resa di certi dipinti a mo’ di tableau vivant. Fu in assoluto il suo film più costoso, nonché uno dei suoi peggiori insuccessi, anche per via di una ricostruzione tutt’altro che lusinghiera della sacra Révolution française.