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Ermanno Olmi ed il suo “tempio vuoto”

Il regista bergamasco afferma che “il tempio è la comunità”. Proponiamo una chiave di lettura della sua ultima fatica, Il villaggio di Cartone.

pubblicato 8 Settembre 2011 aggiornato 1 Agosto 2020 08:39


Su queste pagine abbiamo avuto ampiamente modo di discutere riguardo all’ultima fatica del regista Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone. Dapprima con un interessante approfondimento di Italo Moscati, poi con una recensione altrettanto stimolante di Gabriele. Vogliano scusarmi, quindi, quei lettori che preferirebbero non si tornasse sull’argomento. Purtroppo, a mio avviso, è necessario. Bisogna tornarci perché, nel marasma di critiche e peana assimilati durante la post-proiezione del film, pare che certe affermazioni del neo-ottantenne maestro siano sfuggite ai più.

Parole che ci aiutano senza dubbio alcuno ad inquadrare meglio l’opera di Olmi, e che forse danno una mezza spiegazione relativamente al perché i “buoni propositi” di questo suo ultimo film siano stati vanificati da alcuni passaggi poco chiari. Italo ha parlato di un “motore che si inceppa”, mentre Gabriele parla di un lavoro “soffocato dalle metafore”. Insomma, qualora non si fosse capito, mi servirò anche degli occhi dei miei due colleghi, giusto per sopperire ad una mancata visione alla quale intendo porre rimedio quanto prima. Ma non è di una contro-recensione che m’interessa trattare. Non a caso ho rinviato ad alcune dichiarazioni di Olmi, che, a parere di chi scrive, colmano quel gap tra le premesse e la realizzazione.

Il villaggio di cartone, seppur non esplicitamente, prosegue un discorso che nella mappa concettuale del regista è piuttosto chiaro. Una posizione, la sua, ampiamente e forse più efficacemente esposta in Centochiodi, altro suo film del 2007. L’intento, dichiarato o meno, è quello di mostrare un cristianesimo così per come, a parere di Olmi, dovrebbe essere. Un discorso che trascende la Fede, e che si situa nul campo dell’ideologia – come sottolinea lo stesso regista. Le sue considerazioni sul film appena proiettato a Venezia sono tutto un ricorso al termine simbolo, simbolismo, simbologia e ogni altra cosa che a tali definizioni rimanda.

Trattasi di argomentazioni che, tutto sommato, si riuscivano a seguire in Centochiodi. In quella pellicola, al protagonista – un giovane professore in rotta con sé stesso e col mondo – Olmi farà dire che “le religioni non hanno mai salvato il mondo“. Ed è questa una sentenza probabilmente condivisibile, sulla scorta del “non tutto giusto magari, ma pressoché niente sbagliato”. Poi arriva questa sua chiesa di cartone, epurata da tutto (compresi i fedeli), scevra di tutte quelle cose che il maestro, con una superficialità che certamente non gli appartiene, definisce “orpelli”. Un tempo si diceva che la Chiesa, quella intesa dai cattolici, fosse il tempio di Dio. In barba ai panteisti più sfegatati, per i quali la frase “Dio è ovunque” equivale a “Dio è ogni cosa”, verso questo luogo c’è sempre stata una particolare riverenza.

Un tempo anche il più misero dei ribaldi si fermava dinanzi a quella soglia, e non certo per Fede. Erano anche e soprattutto quegli “orpelli” ad incutere nell’estraneo un certo timore, che è cosa ben diversa della paura – la quale, se c’era, era massicciamente diluita ad un insolito rispetto. Un “orpello” su tutti, di cui non so nemmeno se il buon Olmi parla nel suo film, era il Tabernacolo, relegato (se va bene) in un angolo nelle chiese moderne, e forse per questo sfuggito anche ad Olmi – a prescindere dall’esplicita menzione o meno nel film.

Non è spirito di catechesi il mio, bensì interesse ad inquadrare un discorso che continua a non convincere, ed in funzione di cui Il villaggio di cartone mi fornisce semplicemente l’opportunità di discuterne. E parlare del Tabernacolo, prima ancora della Croce di cui la sua chiesetta viene privata, è fondamentale ai fini di un corretto inquadramento. Se lì non c’è Dio, allora sì che tutto è simbolico. Se in quel luogo, su quell’altare, non riposano le spoglie di Colui che viene creduto Dio, a nulla giovano bei quadri e quant’altro. Ed in questo forse, la colpa non la si può attribuire esclusivamente a dei ragionamenti errati.

Qualcuno dovrebbe insegnarle certe cose a chi crede, perché quest’ultimo, col tempo, finisce col diventare “adulto” e non credere più. La sua Fede muta in ideologia, la sua Carità in un’indiscriminata accoglienza senza alcun tipo di discernimento, la sua Speranza diviene un’accozzaglia di frasi, forse belle, certamente ad effetto, ma che non possono andare oltre agli applausi scroscianti di una platea altrettanto confusa. La sua critica alla Chiesa – e alla gerarchia ecclesiale nello specifico – perde di mordente laddove Olmi (o chi per lui) intende cambiare ciò che non è in suo potere cambiare. Sì perché, al contrario di ciò afferma, non è un ritorno alle origini quello a cui aspira, bensì uno stravolgimento che tende a cambiare ogni cosa. Non c’è bisogno di essere credente per restare perplessi dinanzi a certe uscite, perché quello che denotano non è una scarsa Fede bensì una scarsa percezione della storia. Usando una metafora un po’ forzata, è come se si volesse tornare ai tempi dell’aratro perché quel tipo di tecnologia implicava un lavoro più duro e genuino. Dimenticando che l’uomo, successivamente, si è scervellato non poco per trovare soluzioni più efficaci e al tempo stesso più “comode”.

E che sia un giovane a ricordarlo a un ottantenne è qualcosa che non dovrebbe accadere, e per cui mi scuso. Ma non si può confondere il bianco col nero. Così come non si può confondere la povertà col pauperismo. A ciascuno il suo. Certi uomini di Chiesa avranno anche le loro colpe, ma, come ci insegna Olmi, è anzitutto su di noi che bisogna lavorare. Cominciamo allora dall’umiltà, virtù ben più concreta di un’incerta “accoglienza”. Perché mi pare sia lo stesso Dio (nella persona trasudante storia da tutti i pori che è Gesù il Nazareno) a cui dice di appellarsi che sottolineò come senza rendersi umili non sarebbe stato possibile arrivare al Cielo. La stessa umiltà che, in un periodo in cui la povertà si tagliava davvero col coltello, permetteva a buona parte della popolazione di non guardare alle stoffe pregiate e ai gioielli preziosi per contraddire quelli che loro stessi consideravano maestri. Quell’umiltà che manca al protagonista di Centochiodi, per cui, novello illuminato, tutto ciò che è stato scritto nell’arco dei secoli precedenti sono solo sciocchezze, per di più nocive – come se la storia e la consapevolezza dell’uomo fossero partite da lui; cosa che cercando di inculcarci da almeno un secolo a questa parte certi loschi figuri. Quello che lascia la sua fiammante BMW sulle rive del Po’ quale dissenso massimo, condito da un annacquato distaccamento che fa molto “ehi fratello!“.

Non è un Olmi meditativo quello de Il villaggio di cartone, perché se il tempio è solo comunità (come afferma in un’intervista), allora non c’è spazio per la meditazione. Così come non c’è spazio per quelli che lui chiama simboli, ma che diventano tali solo quando al centro di tutto c’è l’Uomo e non l’Essere che costoro dicono di adorare. Suonerà un po’ inusuale quanto appena constatato, ma alzi la mano chi non si sente almeno un po’ spaesato dinanzi a qualcuno che vitupera i simboli perché mortificanti ai fini di una “retta dottrina”, salvo poi dare vita ad un film non realistico in cui “ogni presenza“, per sua stessa ammissione, è “simbolica“.

Forse è qui che il motore di cui parlava Italo s’inceppa, dove le metafore alle quali alludeva Gabriele soffocano la resa della pellicola. “Il simbolo deve rimandare ad una realtà di carne per avere valore“, avverte Olmi. Peccato che la carne sia proprio ciò che il maestro intende negare categoricamente alla totalità dello scenario che lui definisce accessorio. E quel che rimane non può che essere un tempio svuotato, perciò vuoto.

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