“Esagerare è meraviglioso…”
La filmografia (quasi) indipendente di Steven Soderbergh è all’insegna dell’esagerazione con medie perfino di due pellicole all’anno. Non tutte perfette o indispensabili ma ogni volta profondamente sentite, proprio come quest’ultimo “Dietro i candelabri”, forse il suo film più sincero e misurato da anni.
Questa la frase di lancio, mai così azzeccata, per il ventisettesimo lungometraggio di Steven Soderbergh, l’ultimo prima della annunciata (ma sempre rinviata) pausa sabbatica. Ed esagerare sembra ormai nelle corde del regista a giudicare dalla mole di pellicole da lui firmate da quel lontano 1989 quando “Sesso, bugie e videotape”, folgorante Palma d’Oro voluta dal presidente Wim Wenders, ridefinì per gli anni a seguire il concetto di cinema indipendente.
E da allora, bisogna dirlo, Soderbergh non ha mai smentito (troppo) la sua fama di cineasta “libero” e svincolato da scelte mainstream, dimostrando che si possono realizzare film indipendenti perfino all’interno del sistema anche se ciò comporta il rischio di andare incontro a cantonate eccellenti (Full Frontal) o di sacrificare budget e divi sull’altare dell’autorialità (l’affascinante ma pretenzioso Solaris). Cinema talmente indipendente da potersi permettere (anche) di trasformarsi in divertissement di lusso fra vecchi amici (come la saga di Ocean &Co.)
Certo non si può mica affermare che tutto il cinema del regista statunitense sia indispensabile e così qualche esercizio di maniera come “Intrigo a Berlino”, seppur impeccabile, resta appunto nulla più che un esercizio poco necessario (sotto questo profilo meglio allora prodotti più informi ma coraggiosi come “Delitti e segreti”). Eppure tutto quel cinema sta lì a testimoniare una voglia inesauribile di sperimentare, unitamente al rischio di rimettersi in gioco dinanzi al suo stesso pubblico. Rischi che spingono Soderbergh a cogliere al volo ogni possibile opportunità narrativa, compresa l’idea di raccontare crisi economica e culto del corpo sotto la prospettiva di uno stripper (“Magic Mike”), misurandosi con biografie-fiume che farebbero tremare i polsi (il dittico sul “Che”) o con storie di solitudine ed emarginazione (“Bubble”) così asciutte da renderlo irriconoscibile.
E se “esagerare è meraviglioso” allora non sorprende troppo che l’ultimo azzardo del regista sia rappresentato da una biografia gay come quella di Władziu Valentino Liberace, il “Lee” entertainer del music hall americano per tre generazioni nonché uno dei personaggi più significativi della cultura dello spettacolo. Pianista eccentrico, innovativo ed “esageratamente” gayo passato alla storia non solo per le sue doti di performer totale (dalla classica al boogie-woogie), ma soprattutto per la capacità di costruire sul palco un personaggio più grande del vero, adornato d’oro, pellicce, lustrini e, naturalmente, da quei barocchi e scintillanti candelabri che ne coreografavano le esecuzioni.
Con Liberace non nasceva soltanto il precursore “stilistico” di Freddie Mercury, Elton John e Lady Gaga ma innanzitutto l’idea di showman, o la sua chimera se volete, quella al quale il pubblico si abbandonava adorante mentre veniva investito da tonnellate di piume, limousine color latte e un’ironia garbata, sfacciata e, soprattutto, “felice” di essere fraintesa. Perché Lee ci giocava proprio con quel pubblico, con la sua ignoranza beata o il suo beato disinteresse, sfidandolo costantemente a colpi di bizzarria e ostentazione ( negli ultimi spettacoli entrava e usciva di scena volando come una leggiadra ed attempata drag queen).
Ma in fondo cosa gliene importava all’America degli anni ’50 di sapere cosa si celasse dietro i candelabri di quel tempio “camp”, quando a tenere sotto scacco una nazione bastavano un sudaticcio senatore (McCarthy) e il suo scettro anti-comunismo (e Liberace appare proprio in un intervista di Edward Murrow in “Good Night and Good Luck”) ? E a quella sconvolta dall ’omicidio di J.F.K o stordita dal Watergate?
Di sicuro interessa Soderbergh, attratto però non tanto dalla prospettiva di portare in scena una biografia musicale (le esibizioni nel film sono limitate e spesso “tronche”) o di girare un melò queer prosciugato da vezzi stilistici, ma dall’idea di riflettere su un “privato” eccellente, quel privato (non solo sentimentale) che in fondo non era altro che l’ennesimo palco sul quale andava in scena un’altra rappresentazione, ben più lucida, amara e terribile: quell’impossibilità di eternare il Liberace-artista nel Liberace-uomo o, al più, l‘amarezza di non potere far convivere entrambi nella stessa persona alla luce del giorno.
Ecco quindi candelabri, ville affrescate, toy boys e il “mostro” della chirurgia plastica a suturare il tutto. Sono questi gli sgargianti tasselli utilizzati dal Liberace di “Dietro i candelabri” (un Michael Douglas da ovazione) per ricostituire sopra il proprio sembiante impietosamente calvo quel Frankenstein da sempre agognato (benchè sempre uguale a se stesso). Una “creatura” replicata dissennatamente nel suo amante più sincero (Matt Damon), inseguita costantemente nei volti freschi degli amanti accondiscendenti e dispersa infine in quella voracità sessuale “nascosta” che consacrerà l’artista al solito destino di morte riservato a tutti quei personaggi rei di eccessiva “favolosità”.
Un’”esagerazione” che sullo schermo funziona a meraviglia ma che fuori è costata cara al regista dal momento che al film, “grazie” alla miopia delle major, sono stati negati sia una degna distribuzione in sala che il conseguente passaporto per i premi della stagione (con Douglas scippato “d’ufficio” del meritevolissimo secondo Oscar), e tutto ciò a causa dell’eccessiva “gayezza” (!) del soggetto portato in scena che ha costretto “Dietro i candelabri” alla più tranquilla trasmissione tv grazie all’emittente HBO.
Inutile soffermarsi a riflettere sulle motivazioni di tale scelta (di eccessiva qui c’è solo una diffusa idiozia distributiva che, abbastanza sorprendentemente, non ha toccato invece la bigotta Italia). Piuttosto fa sorridere che un film che porta in scena quello che la società di allora non ammetteva di vedere, venga oggi rifiutato da una società ben consapevole di tutta la verità. Come se quella crisi di identità filmata dal regista alla fine non riguardasse il solo Liberace ma l’istituzione spettacolo tout-court, quella stessa istituzione che accetta i suoi beniamini solo al prezzo di trasfigurarli nel mito. Sarà per questo che nel film anche la rappresentazione della fine, quella morte spietata che fa scempio del corpo, non può che mutarsi in un rutilante show hollywoodiano, con l’altare di una chiesa trasformato nell’ ultimo e definitivo palcoscenico. Meglio una sfolgorante bugia alla cruda e disadorna verità.
All that jazz…