Everything Everywhere all At Once: Il Multiverso dei Daniels che strizza l’occhio a “Matrix” trionfa agli Oscar 2023
Leggi la recensione e scopri tutto quello che c’è da sapere su Everything Everywhere all At Once, eletto miglior film agli Oscar 2023.
Everything Everywhere all At Once non è un film per tutti, ma che tutti dovrebbero guardare almeno una volta solo per comprenderne lo spessore e la capacità di trascendere i generi, come a suo tempo fece Matrix, frullandoli insieme senza soluzione di continuità e servendoli con massicce dosi di dissacrante humour, come prima ancora fece il Grosso guaio a Chinatown di John Carpenter. Il film dei Daniels miscela azione, commedia, arti marziali, dramma, fantascienza e come il film delle Wachowski a suo tempo. instilla l’intrigante teoria di una realtà alternativa, in questo caso che il nostro universo / realtà sia un puntino minuscolo in un enorme e ramificato multiverso, dove ogni decisione presa o occasione mancata crea una nuova ramificazione, un universo / realtà alternativi, che come una eco si rifrangono creando vite altre in una infinita ridondanza ciclica in cui tutto è naturalmente e comprensibilmente caotico e folle.
Il parallelo con “Matrix” si limita alla capacità di portare lo spettatore in una realtà alternativa basata su un mix di filosofia, concetti scientifici e tropi cinematografici e naturalmente ad un paio di elementi subito inquadrabili, un macchinario che permette al viaggiatore multiversale di acquisire capacità di combattimento assimilabili in un nanosecondo, e la presenza di un prescelto/eletto reticente, il Neo di Keanu Reeves in “Matrix” e la Evelyn di Michelle Yeoh in “Everything Everywhere all At Once”, che si trovano prima a dover metabolizzare l’esistenza di una realtà alternativa / multidimensionale e poi a dover diventare giocoforza l’eroe che la storia richiede: Neo sarà colui che controllerà Matrix e porterà la pace tra macchine e genere umano, Evelyn dovrà invece combattere contro se stessa e la sua stessa genia per preservare l’integrità strutturale di un multiverso incredibilmente fragile poiché dominato dalla casualità.
“Everything Everywhere all At Once” ha mostrato ancora una volta il talento versatile di una strepitosa Michelle Yeoh premiata con uno strameritato Oscar, supportata in questo caso da un cast in stato di grazia: Jamie Lee Curtis e Ke Huy Quan, entrambi premiati con una statuetta, e la bravissima Stephanie Hsu, che per il doppio ruolo di Joy Wang, la figlia di Evelyn e la supercattiva Jobu Tupaki, si è guadagnata la sua prima candidatura all’Oscar. Un altro Oscar che non poteva assolutamente andare altrove è quello assegnato al montaggio di Paul Rogers (The Death of Dick Long, You Cannot Kill David Arquette). talentuoso editor di cui certamente sentiremo parlare in futuro. Il montaggio in “Everything Everywhere all At Once” è il perno su cui ruota l’intero immaginario creato dai Daniels, premiati con due Oscar alla migliore regia e sceneggiatura originale; la frammentazione visiva con cui i Daniels ci spostano da universo a universo e tra le varie versioni dei personaggi risponde esattamente al loro concetto di “sovraccarico cognitivo”. Le immagini in “Everything Everywhere all At Once” scorrono, si sovrappongono, si scontrano e diventano corpo fluido su cui creare una narrazione solo all’apparenza caotica, poiché è proprio il montaggio che amalgama il tutto e lo rende plausibilmente decodificabile, anche nei momenti più concitati in cui Evelyn si ritrova a saltare da un universo all’altro, che sia in cerca di un’abilità da assimilare che di un frammento di vita mancata da assaporare. Naturalmente in questo caos di natura deterministica cercare come si suol dire “la quadra” prima dei titoli di coda diventa una bella sfida, e così i Daniels per il loro finale ricorrono ad pizzico di filosofia orientale per riportare un po’ di ordine in quella che il duo definisce “l’era della polarizzazione estrema e della crisi esistenziale di massa”, trovare quindi un po’ di equilibrio attraverso la gentilezza, qualcosa di sempre più raro in una società diffidente anche con se stessa, ma la gentilezza come ricordano i Daniels “è un’arma potente”, in grado di cambiare la prospettiva in cui ci si approccia alla vita.
La genesi di un’idea dal caos
Incorniciato e appeso al muro dell’ufficio del regista Daniel Kwan a Highland Park, Los Angeles, si trova “History of Rise and Fall” dell’artista Ikeda Manabu, un elaborato disegno a penna che raffigura un vortice di pagode, nodosi rami di ciliegio e binari – un esempio abbondantemente lampante dello stile glorioso e talmente massimalista da fare quasi paura dell’artista. “Le sue opere fanno venire mal di testa a guardarle perché sono intricatissime, ultra dettagliate e ricche di informazioni”, spiega Kwan. “Ma allontanandocisi un po’, se ne distinguono i dettagli, tipo: ‘Ehi, ma quello è un albero!’.” Era circa il 2016 e Kwan e il suo compagno di regia, Daniel Scheinert – il duo conosciuto come i Daniels – dovevano solo trovare il loro albero. In quell’anno avevano iniziato ad abbozzare ciò che sarebbe diventato Everything Everywhere All At Once, che, all’epoca, assomigliava molto al caos di un’opera di Manabu vista da vicino. In una foto che hanno fatto al tempo, un diagramma complicatissimo su una lavagna grande come un’intera parete raffigurava più di una dozzina di sottotrame distinte per colore, scarabocchi di idee buttate a caso e quello che forse era o forse non era un fallo stilizzato (o la pistola di Chechov).
Allora Kwan temeva che il film a cui stava lavorando fosse, semplicemente, troppo. Problema prevedibile – nonché insito nello stesso titolo del film – ma che rende la pellicola veramente originale e, addirittura, pian piano che la sua cacofonia di elementi prende una forma incredibilmente semplice, piuttosto trascendentale. Guardando l’opera completa oggi, permane l’energia folle e massimalista e, perfino ora che ne sono venuti a capo, i registi ridono ancora tra di loro quando viene chiesto loro di descrivere il film. “Ci sono l’elemento familiare, quello fantascientifico e quello filosofico”, afferma Scheinert. Oppure si potrebbe dire che è un film sul kung-fu ambientato in vari universi multidimensionali con al centro Michelle Yeoh nei panni dell’eroina reticente. Parla anche del gap generazionale, di internet e del terrore latente che accompagna la vita nell’età moderna. Ma non manca quello che era il riassunto originale che i Daniels si erano preparati per loro stessi: un film su una donna che deve fare la dichiarazione dei redditi. Il che non è propriamente scorretto – dopotutto, è proprio così che comincia la pellicola. All’inizio del film conosciamo Evelyn Wang (Michelle Yeoh) nei panni dell’insofferente proprietaria di una lavanderia a gettoni che vive in un appartamentino angusto sopra l’attività e a cui attende una montagna di scartoffie da compilare per via di un controllo dell’agenzia delle entrate, l’IRS. Si preoccupa per l’arrivo del padre anziano (James Hong) e non riesce a dare ascolto né alla figlia maggiore Joy (Stephanie Hsu) né al sensibile marito Waymond (Ke Huy Quan). All’incontro con l’impiegata dell’IRS (Jamie Lee Curtis), uno strano avvenimento collegato al marito la proietta in un’avventura multidimensionale nella quale il destino di tutti gli universi è nelle sue mani. Questo la mette anche di fronte all’interrogativo: “Chi sono io per me stessa? E per la mia famiglia?” È nell’ultima parte che i Daniels hanno preso le distanze e hanno avvistato l’albero che cercavano. “Si potrebbero dire milioni di cose a riguardo, ma la più semplice e veritiera è che è un film su una madre che impara ad ascoltare la propria famiglia nel bel mezzo del caos più totale”, dichiara Kwan. La pellicola, così come i loro lavori precedenti (Swiss Army Man – Un amico multiuso e l’iconico videoclip di “Turn Down for What” di Lil Jon), si getta subito a capofitto nell’anarchia più totale: Evelyn viene proiettata nel mondo metafisico del “salto tra universi”, passando bruscamente dalla banalità e la monotonia di un’agenzia governativa allo sfarzoso nascondiglio del cattivissimo e distruttivo Jobu Tupaki, dalle luci abbaglianti dei red carpet di Hong Kong a un canyon deserto in cui delle rocce senzienti si confidano l’una con l’altra. Ma questo senso di immaginazione squilibrata, di caos senza fine, ha lo scopo di trasformare l’universale, o multiversale, in qualcosa di intimo, un’onesta meditazione sul vedere veramente le persone intorno a noi in tempi in cui ci sembra che tutto stia per sgretolarsi da un momento all’altro. “L’idea principale che ci ha fatto progredire e che ci è sembrata una metafora di ciò che sta accadendo ora nella società è il sovraccarico cognitivo, la forzatura che ne deriva”, dice Kwan. “Si dice che ‘l’affaticamento da compassione’ sia cominciato con il Covid, ma credo che esistesse già da prima – abbiamo talmente tante cose di cui preoccuparci che abbiamo perso tutti il filo. La pandemia è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e ha reso questo un film sulla compassione nel caos.” La pellicola rivisita astutamente la tipica ‘missione dell’eroe’ a cui il pubblico è abituato infilandola a forza in una struttura in tre atti, come se il film stesso viaggiasse in un multiverso frammentato. Il senso di infinità – tutti i mondi possibili, la distesa di ciò che c’è sotto la superficie, tutti i minuscoli ingranaggi che si muovono – è qualcosa che i registi non hanno mai perso di vista mentre cercavano di arrivare al fulcro della storia del film. Era essenziale che il pubblico provasse le stesse vertigini di Evelyn, quel senso di smarrimento per via del rumore e dell’infinità delle scelte che le si presentano davanti. Gli audaci stratagemmi strutturali sono stati essenziali per riprodurre questa esperienza. Il cuore tematico del film ha aiutato i Daniels a risolvere la fastidiosa contraddizione che caratterizzava la prima bozza di Everything Everywhere All At Once. È successo quando la coppia ha assistito a una doppia programmazione di film anni ‘90 qualche anno fa. “Abbiamo visto Matrix e Fight Club al New Beverly e mi sono innamorato nuovamente di quei due film”, ricorda Kwan. “Ho pensato: ‘Cavolo, se potessi fare qualcosa di anche remotamente simile a Matrix, ma con il nostro stile e il nostro spirito, potrei morire felice’.” Kwan ricorda di aver tratto ispirazione in particolare dalle iconiche scene di lotta di Matrix che si ricollegano all’amore condiviso dei Daniels nei confronti dei film sul kung-fu. La differenza, sottolinea Kwan, è che “a noi piacciono i film d’azione, non la violenza”. “Questi film intrattengono in modo viscerale e volevamo trasporre quel tipo di energia e senso di soddisfazione che si ha guardandoli in un contesto d’amore e comprensione”, continua Kwan. “Il che non è stato per niente facile, ma ci siamo divertiti. Non sapevamo come fare, ma volevamo portare qualcosa del genere sul grande schermo.”
Fonti di ispirazione, scrittura e sviluppo
“Ero lì seduta e ho pensato: ‘Nessuno sano di mente farebbe mai qualcosa del genere con le dita a hot-dog’.”, dice Michelle Yeoh ricordando la prima volta che ha letto il copione di Everything Everywhere All At Once. Era solo un assaggio di dove i Daniels l’avrebbero portata nei loro sogni multiversali e deliranti, tra i quali ne esiste uno in cui lei ha degli hot-dog al posto delle dita e li usa in modi particolari e bizzarramente toccanti su Jamie Lee Curtis. Yeoh non aveva ancora visto Swiss Army Man – Un amico multiuso, ma ne aveva sentito parlare bene – forse, se avesse visto prima il film con Daniel Radcliffe nei panni di un cadavere che soffre di flatulenza e che diventa per Paul Dano un compagno, uno strumento di sopravvivenza e una fonte d’ispirazione di pensieri trascendentali, si sarebbe fatta un’idea di in che cosa si stava cacciando. È stato proprio durante il tour promozionale di Swiss Army Man – Un amico multiuso che i due registi si sono convinti della loro idea, che al tempo era solo un germoglio, di fare un film fantascientifico sul multiverso. In particolare, dopo aver pensato al concetto intrigante di creare un’atmosfera, citando Scheinert, “da incubo esistenziale-nichilistico”. Ma nella mischia ci sono anche le dita/hot- dog e la matassa colorata di idee e ambientazioni che ci si aspetta da un film dei Daniels sull’infinità delle vite possibili. “Abbiamo steso una prima bozza e tutti ci hanno detto: ‘Sembra un film da 100 milioni di dollari, dovete riscriverlo’.”, dice Scheinert. Tuttavia, grazie all’esperienza nei videoclip musicali, un campo in cui hanno imparato a creare dei mondi immersivi con un budget limitato e utilizzando i propri computer personali, la coppia, con l’aiuto di una piccola, ma affidabile troupe di amici con cui lavora da anni, è riuscita a non sacrificare l’estensione e la stramberia della loro idea. “Spesso la tensione creativa della nostra collaborazione è data dal fatto che io sono troppo ambizioso e lui pensa troppo all’efficienza e al risparmio economico”, dichiara Kwan. “Questo braccio di ferro e questa tensione ci permettono di concentrarci e di spendere i soldi per ciò che conta e di lesinare e scendere a compromessi su tutto il resto.” O, in altre parole: “Dan ha un’estetica massimalistica”, dice Scheinert. “A volte le sue idee sono come flussi di coscienza. Tipo: ‘Dicono questo! E poi accade questo!’ E il mio compito è quello di fare il tifo per lui.” E, insieme, i due trovano il modo di tradurre questi flussi di idee in opere realizzabili. Per entrambi, la sregolatezza che contraddistingue le loro opere è nata quando hanno iniziato a creare contenuti durante la prima ondata dei contenuti digitali su internet. Anche se guardando Everything Everywhere All At Once ci si imbarca in una caccia al tesoro di riferimenti cinematografici eclettici – da 2001: Odissea nello spazio a In the Mood For Love e Ratatouille – Kwan sottolinea che la loro voce è ben lontana da quella di un cinefilo e che, piuttosto, è stata plasmata dai video su YouTube, dagli sketch del Tim and Eric Awesome Show, Great Job! e dall’anarchia che rompe ogni forma prefissata dei film anime giapponesi. “Pubblicavamo i nostri contenuti su internet e l’algoritmo li promuoveva perché erano totalmente fuori di testa. Ricevevamo attenzioni e un grande rinforzo positivo”, ricorda Kwan. “Al che pensavamo: ‘Dobbiamo fare qualcosa di ancora più pazzo, allora’.” Ma, a un certo punto, quel tipo di riscontro ha rischiato di spingerli verso un abisso di film fuori di testa senza motivo. “La consapevolezza e la sensazione di star sprecando le nostre vite ci hanno spinti a inserire qualcosa di personale nei nostri lavori, solo per vedere cosa sarebbe successo”, dice Kwan. “Si è venuta a creare una strana sinergia per cui noi collaboravamo con l’algoritmo. Questo ci diceva: ‘Osate, scavate a fondo, fate roba strana’. E i nostri cuori rispondevano: ‘Sì, ma vogliamo creare qualcosa che abbia un significato. Come facciamo?’.” Everything Everywhere All At Once riesce nella grande acrobazia di dare corpo a questa voce scomoda. Il mondo immaginario, al limite dello schizofrenico, in cui Evelyn si ritrova spinge il film verso un finale sorprendentemente catartico. Il viaggio di Evelyn attraverso tutte le sue vite possibili le permette di capire cos’è che conta veramente per lei. “Ci piace tantissimo far emozionare il pubblico con qualcosa di assurdo”, afferma Scheinert. “Quando ci riusciamo è una sensazione strana! Ci emozioniamo, ma ci sentiamo anche come se fossimo riusciti a fare uno scherzo cattivissimo a qualcuno.” (Questo scherzo include la scena in cui Curtis e Yeoh si sono dovute far ricoprire la faccia e riempire la bocca di ketchup e senape. “Continuavamo a ripetere: ‘È una parte del film ricca di pathos’. E loro erano incredule: ‘Ma cosa diavolo dite?’.”, ricorda Scheinert. “E quando abbiamo montato il tutto ho capito che avevamo ragione noi!”) In Everything Everywhere All At Once la componente umana e personale è stata sviluppata a partire da diverse conversazioni dei Daniels riguardo alle loro madri e alle difficoltà dovute al gap generazionale – un’esperienza universale che è stata amplificata dalla rapida ascesa dell’era digitale. Kwan spiega: “Alla fine dei conti, questo personaggio somiglia moltissimo a mia madre – quel tipo di madre agitata, oberata di cose da fare tutte in una volta e che non riesce a dedicarsi interamente a nessuna di esse”. In principio, la coppia aveva pensato a Evelyn come una donna che non sa di avere l’ADHD, un disturbo che le dà una marcia in più quando si tratta di accedere ad altri universi. Ma per paura di parlare del disturbo in modo troppo riduttivo, Kwan ha iniziato a fare ricerche e ha avuto un’epifania: “Ho fatto le quattro di notte al computer. E all’improvviso ho pensato: ‘Oh, no. Oh, no. Che cavolo succede?’”, rivela Kwan. “Perché non mi era mai passato neanche per l’anticamera del cervello che io potessi avere l’ADHD.” Dopo un anno in terapia, gli è stata fatta una diagnosi ufficiale e questo gli ha dato modo, a 30 anni, di capire meglio il suo cervello e perché da piccolo aveva affrontato certe difficoltà. Inoltre ha iniziato a vedere con occhi diversi sia sua madre che Evelyn. “Perciò Evelyn è unica e vivace: per la sua voglia di strafare e non riuscire poi a fare niente – cosa che ho in comune con lei da tutta la vita”, dice Kwan. Nel film, Evelyn diventa una specie di prescelta alla Neo precisamente perché è la versione meno riuscita tra tutte le sue potenziali versioni. “Questo le dà dei superpoteri che le permettono di sconfiggere il cattivo”, dice Kwan. “Ma”, aggiunge Scheinert, ”spesso si distrae per via di tutte le vite che avrebbe voluto vivere.” Tutte queste vite di Evelyn possono anche essere interpretate come un’allegoria della madre immigrata: quando si lascia il proprio Paese d’origine, le strade percorribili lì, d’un tratto, ci vengono sbarrate, proprio come i nostri sé alternativi ci vengono preclusi. E le nuove strade promesse in una terra proclamata come ‘ricca di opportunità’, si rivelano poi essere quasi totalmente inaccessibili. “Per lei, il viaggio non è stato facile”, dice Yeoh. “Ha fatto la scelta di lasciare la propria famiglia in Cina e iniziare una nuova vita con l’uomo che amava. Voleva ricominciare da capo, ma le cose non vanno sempre secondo i piani.” Questa esperienza impedisce a una madre come lei di comprendere i sentimenti della seconda generazione di immigrati, di coloro che crescono e vivono in una situazione relativamente stabile in un Paese che sentono come proprio. “Entrambi i miei genitori sono immigrati qui”, dice Kwan. “Quando devi integrarti in una società, non puoi concederti il lusso di pensare a nient’altro che non sia la sopravvivenza.” Cita una frase di Beginners di Mike Mills: “La nostra fortuna ci ha permesso di provare una tristezza che i nostri genitori non hanno avuto tempo di provare. E una felicità che non ho mai visto in loro”. Se a questo aggiungiamo internet e il cambiamento culturale sconvolgente che ha portato, la vita di una figlia queer risulterà incomprensibile per un genitore e un padre che invecchia e il gap generazionale all’interno della famiglia si allargherà ancora di più. Da questo punto di vista, ha perfettamente senso che la figlia di Evelyn, Joy, sia anche la sua nemesi nel multiverso, Jobu Tupaki – un’agente del caos che è sia la persona da sconfiggere che, forse, quella da salvare. “Jobu è la manifestazione del gap generazionale e il multiverso è una divertente metafora di internet”, fa notare Kwan. “Siamo cresciuti durante l’ascesa di internet, ci ha ammaliati e rovinati. Siamo diventati come siamo ora e i nostri genitori provano costantemente ad accorciare le distanze.” Nel 2022 – l’era del sovraccarico cognitivo, della polarizzazione estrema e della crisi esistenziale di massa – la fatica che i genitori fanno a comprendere i propri figli non sembra una banale esperienza di tutti i giorni, bensì una lotta sempre più confusa tra persone che si vogliono bene e, al contempo, che si odiano a morte. “Per un certo senso, il film non è altro che un family drama”, dice Scheinert. “Poi ci siamo inventati le metafore più bizzarre, enormi, intricate e iperboliche per il gap generazionale; a cui si aggiungono le incomprensioni e le differenze ideologiche all’interno delle famiglie.”
Everything Everywhere All At Once – La gentilezza del caos
Di questi tempi, pensa Kwan, la maggior parte dell’arte non riesce ad affrontare due tematiche: “Una è la sensazione che tutto stia accadendo nello stesso momento – e quindi come si fa a inserirla in modo significativo in una storia? L’altra è il cambiamento climatico”. Everything Everywhere All At Once è chiaramente il tentativo dei Daniels di catturare la prima
tematica, ma si ha la sensazione che anche la seconda faccia capolino da dietro l’angolo. Ovviamente, nel linguaggio dei Daniels, se il cambiamento climatico appare nel film, deve avere un aspetto totalmente diverso: nel piano malefico di Jobu, un buco nero a forma di bagel con semi vari minaccia di risucchiare dentro di sé il multiverso e distruggerci tutti. “Questo progetto nasce dalla nostra ansia di vivere nel mondo moderno e credo che tutti quelli che conosco stiano cercando di rappresentarla”, dice Kwan. Questa sensazione era già presente nel 2016 alla prima stesura, prima del governo Trump e della pandemia. “Ci sentivamo già sopraffatti da tutto. E mentre scrivevamo abbiamo pensato: ‘Oddio, cosa succede? La situazione sta peggiorando. Com’è possibile che possa essere peggio di così?’”, ricorda Kwan. “Stiamo tutti cercando di elaborare quella sensazione, la tragedia e il caos che aleggiano su di noi.” I Daniels non hanno una risposta radicale a tutto, ma Everything Everywhere All At Once rappresenta una piccola risposta speranzosa al caos. “Una delle cose migliori che si possano fare per qualcuno è dargli ascolto”, afferma Kwan. Evelyn deve affrontare un multiverso sull’orlo del collasso – una manifestazione estrema del sovraccarico sensoriale che caratterizza il mondo moderno – per rendersi conto che la sua famiglia la sostiene da sempre. “Bisogna arrivare alla fine del mondo per capire cosa importa davvero: tua figlia, tuo marito – sceglieresti qualcun altro?”, si interroga Yeoh. È anche un interrogativo e un promemoria per il pubblico, quello di guardarsi intorno e vedere chi c’è, di comunicare e di essere gentili. Ed è ciò che, in parte, il film è diventato per i Daniels stessi. “Vorrei che il pubblico cogliesse il messaggio che la gentilezza è un’arma potente. Raccontare questa storia ci ha fatto riflettere su un’idea”, dice Scheinert con una vocina alla Bill & Ted “’Sì, la gentilezza – bello!’ “.