Favolacce, conversazione coi fratelli D’Innocenzo
Più che un’intervista, quattro chiacchiere con Fabio e Damiano D’Innocenzo sul loro ultimo film, Favolacce, disponibile on demand da lunedì 11 maggio
Mezzogiorno in punto. Chi scrive, Damiano e Fabio annulliamo tramite telefono i quasi seicento chilometri di distanza che ci separano, mediazione preferita dai due registi al più freddo e asettico invio di domande, le quali, se da un lato consentono certo risposte più meditate, dall’altro scremano tutto quel non detto o quei semplici equivoci originati dalla fretta, dalla distrazione o dall’uso improprio di un termine mentre si parla, col rischio di lasciare intendere una cosa per un’altra – detto così sembrerebbe preferibile la via scritta, anche se così non è, non sempre. Come quando chiedo che fine abbia fatto il film la cui sceneggiatura «era stata anche curata da Paul Thomas Anderson». Apriti cielo. Ci tengono a correggermi immediatamente, com’è giusto che sia, «prima che passi l’idea che abbiamo scritto una sceneggiatura con Paul Thomas Anderson, cosa assolutamente non vera». In cuor mio stavo riferendomi al fatto che PTA avesse tutt’al più supervisionato questa sceneggiatura, dando qualche indicazione nell’ambito di un progetto che lo ha visto assegnato ai due fratelli in qualità di tutor. Vallo a spiegare così per come l’ho scritto mentre si è presi da svariati pensieri, il prendere nota, quella mezza fretta che in fondo hai nel volerli liberare quanto prima etc. Non ho ancora preso familiarità con l’idea che questa non è un’intervista, pur sapendo da principio che non lo sarebbe stata.
Non per niente sia Damiano che Fabio non solo si sono prestati, ma lo hanno fatto generosamente, lasciandosi incalzare, accettando che in alcuni frangenti il sottoscritto forse parlasse pure troppo per spiegare domande che in fondo erano più semplici di come le formulavo, senza star lì a guardare l’orologio (che forse di tanto in tanto hanno controllato, non posso giurarci), ma prendendosi tutto il tempo che serviva per dire quello che volevano dire, come volevano dirlo. Alcuni si chiederanno cosa c’entra un simile preambolo, ma credetemi, c’entra eccome, dato che condizioni del genere sono un lusso che raramente ci si può concedere, anche se ahimè per valide ragioni.
Una cosa emerge subito, questione che si ripropone nuovamente sul finire, dato che la nostra è stata una conversazione, di certo non un’intervista appunto: entrambi si dicono contenti e sorpresi non solo del nudo dato, ossia del fatto che Favolacce stia “vendendo bene”, tanto che Vision ritiene che, qualora fosse stato possibile lanciarlo in sala, oggi sarebbero stati in testa al botteghino. Ciò che li colpisce di più è il dibattito che si è creato attorno al film, il fatto che gli spettatori lo abbiamo preso a cuore, sviscerando temi ed elementi che loro stessi non avevano considerato. Non sempre riesco a capire chi dei due stia parlando, perciò da subito stabilisco che non importa poi tanto, visto pure che non s’interrompono mai: uno parla e l’altro ascolta. Nel caso, chi fin lì non ha parlato, integra il medesimo pensiero con qualche altra considerazione.
«A me la cosa che sta colpendo è che se ne sta parlando dovunque. E non lo fanno perché il nostro film somiglia ad un altro, senza riferimenti insomma. Il fatto di arrivare tantissimo pubblico, che poi ne discute, ne dibatte, chiede. Un pubblico che completa il film: è quello che volevamo, che lo spettatore completasse il film. Credevamo sarebbe accaduto col più codificato La terra dell’abbastanza, e invece no». Al contrario, ribatto io, credo che un film come Favolacce si prestasse di più a questo tipo di accoglienza, proprio per il motivo che adducono loro: La terra dell’abbastanza è un crime movie che, agli occhi dello spettatore, tende a mimetizzarsi. Che sia un buon film, secondo tale logica, rileva fino a un certo punto, perché poi alla fine, per sensazioni e dinamiche, prende le distanze fino a un certo punto, attingendo ad un tipo di universalità che c’è ma che è più sottile, quindi meno immediata da scorgere. Diverso il discorso con Favolacce, molto più diretto, come l’ho definito in recensione, duro se vogliamo, qualcosa con cui è quasi più istintivo relazionarsi. Tanto che, racconta Damiano, «Paola Malanga di Rai Cinema, dopo averlo visto la prima volta, ci disse: ora tutti proveranno a fare un film come Favolacce, aspettatevelo».
Quanto alla genesi di questo progetto? «L’abbiamo scritto a diciannove anni, mentre La terra dell’abbastanza a venti. Abbiamo fatto il giro e tutti i produttori ce l’hanno rifiutato, alcuni anche in maniera piuttosto cruda. Per fare Favolacce serviva prima qualcosa di più codificato. Quando ci è stato chiesto se avevamo qualche idea per un secondo film, l’abbiamo tirato fuori dal cassetto di mille case vere cambiate e da cui abbiamo traslocato».
È qui che mi parlano di certi rimandi, che sono sensazioni, impressioni, odori ai quali i due fratelli si sono aggrappati nel rievocare certi momenti, tutti facenti capo a quelle estati fatte di silenzio e di cose alle quali, una volta diventato adulto, non fai più caso, ti sono irrimediabilmente precluse. L’odore di quella spirale contro le zanzare che si diffondeva nell’aria, così come il suono costante della TV dei vicini, quasi una sorta di colonna sonora ad un momento in cui il tempo era sospeso. Hanno voluto metterci tutto questo, ma ci hanno messo pure quello che non hanno voluto in senso stretto, come la tanta Letteratura americana che leggevano in quella fase della loro vita – non hanno voluto nel senso che si è imposta da sé, dato che a quelle letture lì si erano così tanto esposti. E qui, indirettamente (ma neanche tanto), mi dicono cosa potrebbe essere il loro prossimo film: «da un po’ di tempo a questa parte leggiamo molta poesia, quindi magari nel terzo ci troverete quella».
Quindi c’è un terzo film in cantiere? «Sì, già prima di Berlino avevamo un plot e durante il Festival ci abbiamo pensato in continuazione. Una volta tornati in Italia abbiamo scritto la sceneggiatura in sei giorni». Lo definiscono il loro «terzo esordio», qualcosa di diverso rispetto ai due che hanno fatto; «un thriller puro», mi dicono, per quanto comprensibilmente restii alle etichette. Qui mi pare sia giunto il momento di evidenziare un altro aspetto interessante, ossia che questa quarantena per loro si è rivelata fruttuosa, dato che, insieme al loro terzo film, stanno già lavorando ad una serie TV per Sky, di cui scriveranno e dirigeranno tutti gli episodi. Quanto a cosa verrà prima, attualmente non sanno dire.
Non ho potuto fare a meno poi di chiedere loro qualcosa rispetto alla scelta di alcuni attori; uno degli aspetti che mi ha colpito di più in Favolacce sono i volti, le espressioni, dunque certe facce. Sentite un po’ che dicono su Ileana D’Ambra, felice sorpresa anzitutto per i registi: «L’unica qualità che mi attribuisco (a parlare è Damiano, ndr.) è che so di dirigere bene gli attori. Qui avevamo bisogno di volti: prima ancora di provinarli li abbiamo disegnati. Quindi c’era una caratteristica che cercavamo in ciascuno. L’unica che aveva un soma diverso era Ileana. Sembrava pronta a fare Trilli in Peter Pan quando si è presentata. Le abbiamo chiesto d’ingrassare quindici chili ed ha accettato subito. Figurati che abbiamo aperto una chat su WhatsApp e lei ogni settimana ci aggiornava sulla situazione. Si pensa che gli attori non vogliano essere infastiditi, che vogliano essere lasciati in pace; al contrario, l’attore vuole essere mascherato, cambiato, modificato». In altre parole, viene fuori qualche istante dopo, vuole essere diretto.
Conveniamo circa l’evidenza che uno dei limiti di troppe produzioni italiane stia proprio in questo lassismo da parte di molti registi nel delegare troppo e su più fronti. Non i D’Innocenzo: «Abbiamo una grandissima capacità di catalizzare persone eccezionali. Le nostre sceneggiature sono come piccoli romanzi, densi, pieni di descrizioni, quindi chi decide di lavorare con noi sa che film va a fare, dai produttori in giù». Chiedo loro se è stato così da subito, già ne La terra dell’abbastanza, quando, ancora esordienti, uno si pensa che su un set non tutti tendano a dare fiducia a due che si cimentano per la prima volta: «mai avuto nel primo film ansia da prestazione, né diffidenza; cerchiamo di avere un ruolo fluido, siamo sempre in giro, collaboriamo con tutti i reparti, nemmeno capiresti chi è il regista. Infatti parlare di “un film dei fratelli D’Innocenzo” e riduttivo: è della famiglia D’Innocenzo».
Emerge qui un principio al quale i due tengono parecchio, ossia che un loro film sia espressione di un’idea precisa, verso la quale tutto deve convogliare. Sì perciò alla collaborazione, no al sovrapporsi coi reparti, fermo restando che tutti debbono remare nella stessa direzione, e questo presuppone che il regista (in questo caso i registi) si sporchi le mani, s’immischi dovunque senza però prevaricare. Mi raccontano a tal proposito quest’aneddoto: «ogni giorno ci mettevamo a fare gli storyboard, di modo che sapessimo esattamente come volevamo girare quella specifica scena». Ed un simile modus operandi, immagino, presuppone non poca fiducia da parte della troupe.
Quanto alla location, tutt’altro che marginale in Favolacce, il film è stato girato a Viterbo. Le case che si vedono erano praticamente degli scheletri, dato che per beghe burocratiche a livello edilizio non c’era stato modo di portarle a termine. Me la spiegano schematicamente così: «in questo residence ci sono vari lotti. Dentro non c’era niente perché chi le aveva fatte se n’era scappato coi soldi prima di completare i lavori. Abbiamo cercato di rendere credibili case che erano un cantiere, un lavoro di costruzione; la scenografia dovrebbe vincere qualsiasi premio. Ma un grosso merito va anche alla location manager, che è stata bravissima nel trovare questa soluzione». Manco a dirlo, loro hanno avuto parte attiva in quest’opera di “riempimento”, se così si può dire, correndo come dei forsennati per arredare e dare vita ad interni ed esterni, dato che il tempo era risicato.
È trascorsa quasi un’ora, il tempo è volato. Da quando i due registi si sono detti disponibili ad una chiacchierata, ho immaginato questa nostra conversazione come un flusso a cui non imporre troppe regole; altro ci siamo detti, per lo più considerazioni sul cinema, sul nostro essere accomunati dalla profonda stima per Bruno Dumont, mentre il sottoscritto condivide meno la loro passione per il seppur talentuso Carlos Reygadas. Si è divagato, ci si è confrontati, e grossomodo quanto sin qui riportato è ciò che è emerso. Qualche ora dopo, ripresi in mano gli appunti, mi rendo conto che di quel western supervisionato da Paul Thomas Anderson alla fine non ho chiesto alcunché. Che fine ha fatto? Approfitto della disponibilità di Damiano e lo disturbo un’ultima volta per chiedere lumi a riguardo. Dopo poco tempo arriva un messaggio con la risposta: «Sarà il quarto film… ha un budget molto alto…». «Non potevo non scriverne», la mia replica.