Filmmaker 2014: considerazioni finali e vincitori
Milano Filmmaker 2014: giunge a conclusione anche quest’ultima edizione del Filmmaker Film Festival. Vediamo chi sono i vincitori di quest’anno, con alcune nostre considerazioni finali
Abbiamo un vincitore. Manco fosse uno di quei format TV che tanto imperversavano negli anni ’90. Il Filmmaker 2014 è in ogni caso archiviato, e con lui se ne va un lavoro che conferma il suo occhio indagatore, non sempre incisivo, non sempre sopra le parti, ma comunque accattivante. Alla fine vince Les Tourmentes, che è stato il film meno conciliante di questa rassegna, anche se magari il più duro è stato Ma’a Al-Fidda (Silvered Water, Syria Self-Portrait), che non a caso si è beccato una menzione speciale.
Perché un Festival come questo non accetta compromessi di sorta in questo senso, prendere o lasciare. Perciò il film belga la spunta su tutti, perché il più sperimentale, sottile, esoterico dei documentari qui presentati; quantunque la Giuria appone tale motivazione al verdetto: «Una rappresentazione potente e visionaria della condizione umana in termini di smarrimento attraverso un esemplare slittamento del suono rispetto all’immagine».
Da par nostro sono altri i titoli che, a prescindere dai giudizi di valore, ci hanno stuzzicato maggiormente; da Storm Children, Book One ad Actress, passando per In Sarmatien e Lupino. Opere attualissime, che denunciano realtà trasversali, apparentemente lontane rispetto alla nostra quotidianità ma su cui anche a noi farebbe bene soffermarci. Perché il Filmmaker, così per come lo vediamo noi da fuori, ci sembra che funzioni nella misura in cui riesce a fornire modalità di sguardo, prospettive differenti, non per forza originali ma senz’altro utili, centrate relativamente al tema trattato. E nei film sopracitati qualcosa del genere, in misura diversa a seconda dell’opera, ci pare di averla scorta.
Lech Kowalski è stato invece una sorta di compagno nel corso dei giorni trascorsi a fare spola fra le tre sale del Festival: dovunque andassimo, ce lo ritrovavamo dinanzi. Il suo è un occhio che aggredisce silenziosamente, con garbo quasi, non tanto i suoi protagonisti in qualità di persone, quanto le sue storie. Tanto generoso, cordiale con i suoi protagonisti, quanto diretto e spietato verso gli argomenti che di volta in volta tratta. Probabilmente siamo noiosi, ma i suoi film sul punk e dintorni ci sono parsi i più congeniali alla sua indole, e film come D.O.A., Hey, is Dee Dee Home? o The Boot Factory ce li ricorderemo per un po’. D’altronde affascina anche lo stile, il personaggio Kowalski, che ci guardiamo bene dall’etichettare in alcun modo (ne avrebbe spregio), facendo però notare che il suo cinema d’assalto già lo qualifica per il regista che è.
Modalità, per l’appunto. Di sguardo, come sopra, di fare cinema etc. Questione sollevata a posteriori anche da un film recuperato, come L’occhio selvaggio di Paolo Cavara. Protagonista una sorta di Gualtiero Jacopetti stilizzato, regista tanto vituperato come artista e come persona, che negli anni ’60 attirò le ire di mezzo mondo con due film che passarono alla storia, ossia Mondo cane ed Africa addio. Il Paolo protagonista de L’occhio selvaggio è un tizio che ha quasi del tutto abdicato alla sua umanità, preferendo invece non solo far parte dell’ingranaggio bensì oliarlo come e meglio di altri. Ed è innegabile il fascino che un personaggio come questo può esercitare, perché il suo cinema estremo, scorretto, disumano perfino, ci pare a noi il più affine all’uomo, alla sua natura.
Paradossalmente esatto contrario di un altro cineasta senza compromessi, analogo nel suo perseguire obiettivi a prima vista fuori portata, diverso nei fini, ossia Werner Herzog. Laddove infatti un Jacopetti tende a far leva sul basso, l’Herzog di Fitzcarraldo, per esempio, eleva l’uomo a tal punto da affidargli l’inverosimile compito di spostare una nave da un fiume all’altro. Ciò che non cambia è la tensione verso l’impossibile, o semplicemente verso ciò che non andrebbe fatto. Ma d’altronde certe tendenze non le hanno mica inventate i registi di cui sopra.
E dal nostro discorso abbiamo volutamente tenuto fuori titoli come Jauja o In the Basement, dando per scontato che l’averne già discusso, tra recensioni e commenti successivi, sia sufficiente per “costringervi” a non perderli di vista per troppo tempo. Il resto è ciò che le giurie hanno sentenziato e che di seguito vi riportiamo per giusto dovere di cronaca. Anche se mai come in queste occasioni parlare di vincitori e di vinti può apparire fuorviante. Ma qualcuno deve spuntarla su tutti gli altri, perciò eccovi i vari verdetti.
PREMI E VINCITORI
A “Les Tourmentes” di Pierre-Yves Vandeweer (Belgio/Francia, 2014) è assegnato all’unanimità il primo premio del concorso di Filmmaker Festival, del valore di 3.000 euro, dalla giuria composta da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (registi), Filippo Mazzarella (critico cinematografico), Anna Milani (sindacalista), Tommaso Pincio (scrittore), Giovanni Spagnoletti (docente universitario).
“Una rappresentazione potente e visionaria della condizione umana in termini di smarrimento attraverso un esemplare slittamento del suono rispetto all’immagine”.
Il secondo premio, del valore di 1.250 euro, viene assegnato a maggioranza a “Sobre la Marxa (The Creator of the Jungle)” di Jordi Morato (Spagna, 2014): “una riflessione sul senso più profondo dell’arte, dove il puro gioco diventa un’irrinunciabile esperienza di crescita e continuo confronto con l’ambiente”.
Assegna una menzione speciale a “Ma’a Al-Fidda (Silvered Water, Syria Self-Portrait)” di Ossama Mohammed e Wian Simav Berdirxan (Siria/Francia 2014): “per la capacità di scardinare le certezze dello spettatore attraverso un’opera di forte impatto emotivo e politico, dimostrando al contempo una profonda consepevolezza nel dare forma e senso a immagini accessibili a tutti”.
Inoltre il Premio Giovani, del valore di 1.250 euro, assegnato da un gruppo di studenti di cinema delle università milanesi, è stato vinto da “Lupino” di François Farellacci: “per la spontaneità con cui l’autore dà spessore ai suoi personaggi. Nonostante la delicatezza e discrezione dello sguardo, “Lupino” riescie a catturare l’autenticità di un ambiente particolare come quello della periferia di Bastia, lasciando emergere un’adolescenza stretta tra ingenuità e violenza”.
Il premio Prospettive, del valore di 500 euro, è assegnato all’unanimità a “Tyndall” di Fatima Bianchi (Italia 2014) dalla giuria composta da Cristina Battocletti (giornalista), Minnie Ferrara (produttore), Davide Giannella (curatore) con la seguente motivazione: “per la capacità di scandagliare una dimensione intima e universale rimanendo in bilico tra registri differenti”.
Una menzione speciale va a “Ednina” di Jan Mozetic (Italia/Slovenia 2014) “per la capacità di raccontare per sottrazione le vite attraverso il collezionismo dei materiali di scarto e l’associazione di immagini sporche e di una voce poetica, priva di retorica”.