Filmmaker 2018, De Sancto Ambrosio, recensione: la vita di un luogo di passaggio
La vita di un luogo non solo attraverso le persone che ci passano, secondo la prospettiva di un non milanese
Assumere un punto di vista e quello soltanto, poi da lì raccontare. Ma cosa? De Sancto Ambrosio è uno di quei documentari imperniati sull’osservazione che si fa racconto, per poi ricostruire a posteriori una “storia”. Ed è un po’ l’approccio al cinema del giovane Antonio Di Biase, che predilige la scoperta in luogo dell’organizzazione, pratica che subentra successivamente, dopo aver raccolto abbastanza dati sul campo.
In questo suo nuovo lavoro il nostro si posa all’altezza del campanile della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano e guarda sotto, alzando lo sguardo al massimo alla stessa altezza rispetto a dove s’è piazzato. A differenza di maestri che calcano terreni analoghi, tipo Frederick Wiseman o Lav Diaz, Di Biase procede al contrario: laddove i primi, in linea di massima, partono dalle persone per raccontare un luogo, il regista italiano parte dal luogo per raccontare le persone. Non è una differenza da poco, ad avviso di chi scrive, dato che informa profondamente la natura del suo De Sancto Ambrosio.
Qui infatti la location non si limita a fare da sfondo rispetto a vicende, situazioni o profili che alla fine si rivelano centrali, bensì le persone, certi brevi ed estemporanei siparietti che le vede coinvolte, rappresentano una delle componenti, esse stesse sfondo rispetto alla centralità del luogo. Un luogo di passaggio, importante, conosciuto dai milanesi, in cui appunto pare di assistere a scampoli di vita, che poi sono esattamente quelli che compongono l’esistenza, la vita della piazza (o spiazzo) in questione.
Con geometrie sicure, in alcuni casi non facili da conseguire, Di Biase sta lì e osserva; e sotto i nostri occhi scorrono le stagioni, le vicende di un senzatetto che chiede qualche spicciolo o prova a prendere sonno in equilibrio precario, oppure degli operai che si lanciano palle di neve, un uomo che tiene in mano un’immaginetta di Gesù Misericordioso mentre si contorce, o così pare, per dei dolori all’altezza dello stomaco. Di più, la macchina da presa scruta tra le finestre di un appartamento, ora la donna delle pulizie stende dei panni, mentre adesso un ragazzo si fuma una sigaretta affacciato ad un angusto balcone.
De Sancto Ambrosio ci dà anche modo di ragionare sui limiti del mostrare, ossia fin dove dovrebbe essere lecito farlo, fino a che punto certo voyeurismo – che è di chi riprende tanto quanto di chi guarda il risultato di quelle riprese – sia a suo modo “accettabile”, senza avere modo di sapere di essere oggetto della registrazione, specie in periodo in cui le maglie della privacy sembrano essersi allargate senza che però il discorso a riguardo stia riuscendo a metabolizzare tale processo. È il caso del senzatetto, come può essere quello del tizio visibilmente sofferente, così come dei bimbi che giocano o degli stranieri che s’inventano pose divertenti: contano le intenzioni, dunque perché intendiamo registrare certe cose e a che scopo.
Il cinema è sempre questione di sguardo, dunque di prospettiva, non è mai neutro nemmeno quando vi siano delle ragioni che tendano a farci credere il contrario, dando adito ad un equivoco che va sanato, sistematicamente. Non c’è morbosità nelle riprese di Di Biase, semmai affezione all’immagine a sé stante, al potere di una composizione per nulla lasciata al caso, nonostante il grado di controllo su ciò che avviene all’interno di quel quadro specifico sia delegata al caso o chi per lui. Semmai può persino esserci quel po’ di amore per un luogo che esiste anzitutto interiormente a chi ne ha registrato i battiti, il suo trasformarsi e restare uguale al contempo. La qual cosa ha già di per sé un merito innegabile.
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De Sancto Ambrosio (Italia, 2018) di Antonio Di Biase. Concorso.