Fischi e pochi applausi per Marco Bellocchio in Sala Grande
“Sangue del mio sangue” è un film ambizioso che non regge, i temi, le storie di un’unica impossibile storia , i personaggi. Un frullatore, che tutto stritola e vanifica
E’ bene lasciare subito la parola al regista Bellocchio per capire: “…a Bobbio, una monaca accusata di alleanza con Satana, viene murata. Questa storia così remota nel passato mi ha suggerito di un ritorno al presente, all’Italia di oggi, un’Italia paesana garantita e protetta dal sistema consociativo e corruttivo dei partiti e dei sindacati che la globalizzazione sta radicalmente ‘trasformando’ (non si capisce ancora se in meglio o in peggio).
Sarebbe bello se alle intenzioni corrispondesse un film che fosse in grado di mantenerle. Bobbio è un luogo che il regista conosce bene, lo frequenta da ragazzo, e da adulto ha messo su una scuola, un gruppo di lavoro; ottima idea. Bellocchio ha pensato di ricavare, dalla esperienza storica (la monaca) e dalla realtà che ha sotto gli occhi quando va a Bobbio, un qualcosa che sappia di meditazione drammatico-fantastica che possa approdare alle crisi, alle incertezze e alle volgarità del presente. Una cupa rappresentazione grottesca, mirata da colpire i “peccati”, i satanici deterioramenti in cui versa il nostro sfortunato Paese. Ma le intenzioni si perdono in un capriccioso, stucchevole racconto, nella prima parte, quella della monaca; e diventa vano e generico nelle scene, diciamo così, della contemporaneità.
Ne risulta un goffo pasticcio che si perde in caratterizzazioni e gag degli attori, che appaiono alquanto frastornati dalla velleità inutile di fondo, anche se allusiva a confronti fra tempi che si vorrebbero significativi nell’accostamento proposto. Quel “molto” che Bellocchio vuole raccontare si riduce a “molto poco” nel film che procede a scatti come una macchina dal motore guasto, un motore quasi morto d’ispirazione (il film) che sobbalza e si ingolfa, tra atmosfere thriller e fumi mentali. Mestiere sciupato.
La sceneggiatura, scritta dallo stesso Bellocchio, forse ha messo in ordine nell’orizzontalità della pagina tutte le idee, le premure, i risentimenti, gli sfoghi, le proteste e i cachinni sull’Italia impastoiata fra conventi, Satana, provincie e paesi in cui i satana sono vecchi signori, notabili, riuniti in un consorzio delinquenziale che lavora a fare e disfare,tranquillo, nella immunità di cui gode. La verticalità delle immagini, del cinema sconfessa la pagina (se esiste).
E’ un film mancato, meglio dirlo chiaramente. Chi lo ha finanziato non ha fatto un favore a Bellocchio che non è più quello dei “Pugni in tasca” e di qualche altro buon film della sua lunga carriera. E Bellocchio non ha fatto un favore a se stesso e ai suoi sostenitori. Il cinema italiano, tra i suoi problemi, ha anche quello della monumentalizzazione del sè che i registi battezzati dal successo e da un anticonformismo d’antan continuano a praticare, aiutati da una colpevole inerzia della critica e della organizzazione del cinema nostrano, incapace di scegliere, capace solo di portare calce e stucco ai monumenti con i pugni tesi al cielo, a pretendere che: “io esisto!”.
Non c’è niente di peggio della rabbia che confessa di non avere poco o niente da dire. La rabbia di generazioni condannate alla contemplazione di se stesse, una rabbia che è una implorazione ad esistete. Non sarebbe cosa scandalosa se questa rabbia posticcia, rifugiata in ragionamenti poco profondi (“…la globalizzaione che sta radicalmente ‘trasformando’(non si capisce ancora se in meglio o in peggio)”. In attesa che Bellocchio capisca cosa e come fare un suo “vero” film, noi capiamo invece benissimo cosa bisogna fare: aiutarlo ad avere pazienza e fiducia, per maturare un film vero e non solo una voglia deteriore di farne uno, presuntuoso.