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Gemini Man, recensione – il futuro del racconto somiglia a quello del Videogioco

Ang Lee abbraccia senza riserve il suo desiderio di mostrarci un potenziale futuro molto prossimo, rinunciando quasi a tutto. Eppure tale rinuncia è ardentemente mossa da un misto di amore e lucidità per i quali non si può non voler bene almeno un po’ a questo difettoso ma significativo lavoro

pubblicato 1 Ottobre 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 16:27

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Ci troviamo a un crocevia, l’ennesimo. Tanto discutere nell’ultimo decennio su certe continue, spesso improbabili intersezioni tra due settori dell’intrattenimento che, a conti fatti, qualificano l’epoca che stiamo vivendo, ossia Cinema e Videogiochi, per poi trovarci dinanzi a Gemini Man. L’ultima fatica di Ang Lee è uno di quei lavori rispetto ai quali mostrarsi scettici, contrariati persino, rappresenta una reazione sin troppo semplicistica, pratica alla quale senz’altro in parecchi cederanno. Eppure, dietro certa ingenuità e la palese debolezza sia della premessa narrativa che della scrittura in generale, non si può glissare sul progetto come si farebbe con altri (pure lì sbagliando, ma qui è meno “perdonabile”).

Henry Brogan (Will Smith) è il soldato perfetto, quello che da un certo punto in avanti si è messo più o meno in proprio a svolgere il lavoro sporco per conto delle varie agenzie governative. Un assassino come non ce n’è, senonché anche per lui il tempo passa e le sue facoltà ne risentono. Clayton Varris (Clive Owen) ne è consapevole da anni, per questo è a capo del programma GEMINI, il cui scopo è quello di creare un piccolo esercito di cloni che rispondono ad una sola persona, autentiche macchine alle quali affidare in toto le missioni più assurde. Insomma, un vecchio tarlo: dato che la piaga della Guerra non si può debellare, tanto vale trovare qualcuno (o qualcosa) che la faccia al posto nostro. Va da sé che Brogan mica può tirarsi fuori da tutto ciò come se niente fosse, ed insieme a Danny (Mary Elizabeth Winstead) dismette i panni del cacciatore per indossare quelli della preda, da fuggitivo peraltro.

È il canovaccio di tanta fantascienza, per un progetto che risale a più di vent’anni fa, allorché temi quali la clonazione tornavano in auge non solo attraverso la Letteratura (era il periodo della pecora Dolly). Ad ogni modo, tematica complessa, non di rado mortificata da sceneggiature che troppo sacrificano sull’altare di un intrattenimento per lo più becero, principalmente perché mosse da ambizioni mediocri. Gemini Man, va detto, si serve di tali presupposti per soffermarsi su altro, ossia la tecnica, senza però esaurirsi in questa fattispecie. Si tratta infatti di uno showcase un po’ più elaborato che ci mostra le potenzialità di una tecnologia con la quale si deve già fare i conti, ossia l’HFR (High Frame Rate), qualcosa d’innovativo, a detta di alcuni inconciliabile con lo standard storico del mezzo, da sempre fissato ai 24 frame per secondo.

Eppure, al netto di questo ineludibile preambolo, Gemini Man rappresenta qualcosa di più di una mera tech demo, e qualcosa di meno di un buon film. L’esperienza straniante alla quale sottopone parla per sé e giustifica la sua presenza, il suo esserci nel panorama di un cinema contemporaneo che necessita non soltanto, come sempre, di titoli significativi, ma anche di nuove formule. Non si può infatti fare le pulci a una struttura tendenzialmente stantia, al suo blando incedere, con alcune scene che sembrano quasi una parodia ora di uno sci-fi, ora di un film tout court, come quell’epilogo un po’ sciocchino e vagamente anacronistico, specie per come è confezionato prima e presentato dopo.

Gemini Man è opera sorniona, che dietro l’impassibilità di una trama che non aggiunge alcunché, né in spessore né in profondità, opera comunque in maniera a tratti addirittura brillante, se si pensa in che modo fa fronte alla necessità di convogliare intrattenimento mediante il ricorso a questo tutto sommato recente ritrovato. Quella offerta da Ang Lee è un’esperienza satura, a partire proprio da quelle immagini dense d’informazioni, forse pure troppo. Spesso quasi tutto è a fuoco, già in questo ponendosi in contrasto con la cinematografia classica: non soltanto per via di una risoluzione innaturale per eccesso, ma anche in considerazione di una fluidità che invece è fin troppo naturale (laddove quest’ultima componente nel cinema tradizionale è scientificamente innaturale per difetto, dato il numero d’immagini per secondo).

La parte più interessante dell’esperimento sta infatti in questa inversione: anziché una storia ordinaria mediante un racconto che si serve di espedienti non realistici (diciamo, anche a costo di usare questo termine impropriamente, cinematici), una storia fuori dall’ordinario attraverso la lente di un realismo estremo. Gemini Man, da questo specifico punto di vista, si pone concettualmente sulla stessa linea di un Enter the Void (2009), che in quest’afflato tendente ad una sorta di ultrarealismo trova la propria missione, incosciamente o meno. Non si tratta soltanto dell’uso massivo di computer grafica, che qui ricrea un personaggio ringiovanendolo di circa venticinque anni, cosa già accaduta nel recente passato e di cui a breve avremo un altro blasonato esempio con The Irishman. No, il valore aggiunto, la novità se vogliamo, sta nell’aver inserito tutto ciò in una cornice specifica, che opera uno step successivo, capace d’indicare un certo sentiero come nessun altro film fino ad ora (obiettivo al quale nemmeno l’ultima fatica di Scorsese può ambire, a prescindere dal reale valore del film).

Si tratta infatti di ridefinire concetti chiave, basilari proprio, che stanno al cuore della visione, del vedere attraverso uno schermo. Gemini Man traccia una rotta la cui meta evidentemente non è alla sua portata, ma che è forse il primo ad intravedere con una chiarezza a tratti disarmante; un orizzonte in cui le storie che racconteremo e che ci verranno raccontate (non solo attraverso questo mezzo) saranno per forza di cose diverse, ancora meno innocue di quanto non lo siano mai state. E non si pensi, mettendo un attimo da parte la questione, che tutto si limiti a questo, quasi che ci si trovi davanti al film di cui è più interessante discutere anziché guardarlo. Perché lo spaesamento capace di generare la visione di Gemini Man dà adito ad ampi margini per lo stupore, la meraviglia di vedere non cose assurde, anzi, cose molto familiari, ma con uno sguardo diverso.

E quando mi riferisco allo sguardo non parlo di prospettiva, rivolgendomi piuttosto al contenuto formale di un escamotage tecnologico che produce senso di per sé. Si può infatti respingere una tenuta di questo tipo, dirsi indifferenti o addirittura contrariati da certi passaggi che sembrano clip tratte da certi video corporate o altri intesi a riprendere scorci naturalistici: come per tutto ciò con cui non si ha una confidenza immediata, non sorprende almeno un iniziale rigetto. Eppure poco sopra, al contrario, ho fatto cenno alla familiarità. Quindi?

Nessuna contraddizione. L’elemento che non ci è nuovo è ciò che riguarda il modo di vedere, che con l’HFR viene mimato per renderlo quanto più conforme al nostro occhio; il cortocircuito sta nella sua implementazione in un contesto in cui ci aspettiamo, per l’appunto, di vedere in altro modo. È l’occhio che fa a botte col cervello, usando una seppur claudicante metafora: l’abitudine ci dice qualcosa che viene palesemente contraddetta, e lo fa in un modo a tratti strabordante. Eppure questo stesso test conferma che, ad un certo punto, tendiamo ad abituarci, venendo “distratti”, positivamente, solo laddove l’azione innesca in noi un campanello d’allarme, quello che attiene alla verosimiglianza. Se infatti in Billy Lynn – Un giorno da eroe Ang Lee ha voluto restituire la presenza scenica dell’attore mediante questo nuovo dispositivo, in Gemini Man spinge in avanti la sua speculazione mettendo in scena situazioni più esasperate, come un inseguimento in moto più realistico del reale – in tal senso si sprecheranno i paragoni con quanto sta a cuore a Michael Mann, a cui certamente Lee è debitore, sebbene lasci perplessi che quest’ultimo non abbia mutuato dal primo la medesima attenzione per altre componenti, in primis quella sonora, rimasta ancorata ai modi tradizionali; mentre Mann, diciamo da Heat in avanti, si è quasi sempre confrontato con una tipologia di sensorialità più totalizzante.

Quest’ultima traccia c’introduce verso l’ultima fase di questo scritto, tornando a bomba, anche se per vie traverse, alla natura tecnologica del progetto, che è strutturale, sì, ma non per questo castrante. Gemini Man infatti, per quanto la produzione si sia a ragion veduta spesa per rimarcare il dispendio di lavoro, dunque risorse, al fine di creare un personaggio quasi interamente in computer grafica mediante il ricorso ad una versione a quanto pare più elaborata di motion capture, non è riuscita a dare contezza (come poteva, d’altronde?) circa l’entità di ciò che propone. Senza troppi giri di parole, Gemini Man è il film che più di ogni altro, ad oggi, porta il Videogioco (non i videogiochi) al cinema.

Non mi riferisco, chiaramente, alla ben più nota e consolidata pratica di trasporre un franchise videoludico in forma cinematografica. Tolta l’interattività, infatti, il grado d’immersione che promette ed in larga parte mantiene il film di Lee si basa su logiche e concetti alla base del mezzo videoludico. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito al processo inverso, ossia quello di videogiochi che tendono sempre più ad assomigliare a film, con tutte le disfunzioni del caso. Ebbene, per la prima volta si realizza il processo opposto, malgrado limiti e distinguo che vanno certamente considerati. Gemini Man guarda a un cinema che consiste sempre meno nella messa in scena e qualcosina in più nel ricreare; creazione ex novo non semplicemente di mondi, ma, come sin qui evidenziato, di modi di vedere, entro una certa qual misura “forzando” le facoltà dello spettatore, il cui sguardo viene appunto “ingannato”, verrebbe quasi da dire hackerato, a più livelli: dalla computer grafica, che replica in maniera pressoché fotorealistica la realtà, in alcuni casi addirittura migliorandola, alla già citata fluidità delle immagini, che ribalta le aspettative inconsce dello spettatore; passando per il tentativo, ancorché maldestro, di adottare sistemi e misure che attengono ad una narrazione totalmente avulsa da simili processi (da cui, almeno in parte, lo straniamento).

È chiaro che il solo replicare le fattezze di un attore oggi non possa stupire più di tanto, non solo a fronte del fatto che tale replica risenta ancora di alcuni difetti (certe movenze, certi riflessi del volto del Will Smith giovane, per quanto appena percettibili, tradiscono il suo essere comunque ricostruzione; si guardi alle labbra, per esempio), ma soprattutto perché certi limiti li consideriamo a ragion veduta accettabili. Ad incrementare la percezione del punto d’incontro tra i due media è, di nuovo, il connubio tra la ricchezza visiva (non strettamente “scenica”) e l’insolita velocità con cui ci scorre davanti. Alla fine della fiera si è addirittura tentati di domandarsi come sia stato possibile scorgerla una trama, quantunque povera, alla luce di una tale mole di roba da processare così in fretta, dopo essersi persino liberati del fardello dei dialoghi, qui relegati al minimo sindacale.

Questo anche per rispondere, almeno in parte, alle seppur fondate critiche di chi, o perché distratto o perché in overload, potrebbe limitarsi a fare le pulci a certi passaggi di sceneggiatura quantomeno incerti. Allo stato attuale non è infatti consigliabile andare oltre, proponendo trame complesse o oltremodo verosimili. Non si tratta, banalmente, di una giustificazione alla generale scarsa consistenza di come viene raccontata una vicenda di per sé già debole: tale difesa è semmai incarnata, a mo’ di attenuante, se non addirittura a compensazione, da un prodotto che nel suo insieme concilia sperimentazione e divertimento, senza alienarsi del tutto da quella che, per forza di cose, viene avvertita come un’esigenza, ossia una storia.

Ma ciò che più colpisce, e che perciò è più significativo, sta nella novità rispetto alla nuova forma d’intrattenimento, che ho tentato fin qui d’illustrare. Gemini Man è davvero una finestra su un possibile futuro, che però è totalmente radicato ed inserito nel presente: quello di un’industria che deve di necessità spuntare troppe caselle e che, nel tentativo di ottemperarvi, si sta affacciando su territori per lo più inesplorati, se non da altri esploratori, che con ben altri mezzi si sono dati a certe spedizioni. Limitatamente alle questioni sollevate, il Cinema non ha perciò mai guardato così da vicino ad un settore che non lo precedesse, che fosse temporalmente anteriore insomma, introiettandone certe prerogative.

C’entra la realtà virtuale, la ludicizzazione di certi processi, così come fenomeni eterogenei e meno auspicabili, tipo il deepfake o la semplificazione, la sempre meno sofisticazione di racconti che, fino a qualche anno fa, altrove erano pretesto (il videogioco nasce con altri intenti, per poi inglobare istanze narrative solo successivamente). Credo invece che Gemini Man guardi a un mondo e un modo che attengono già ad un uomo diverso, cambiato – direi “stravolto”, se tale termine non contemplasse un’accezione a priori così negativa. Lo spettatore di oggi non è pronto, e la sfida che Ang Lee pone ne è una conferma, al contempo paventando a mezza bocca che di qui a breve però lo dovrà essere. Anzi, che lo voglia o meno, lo sarà. I due Will Smith in fondo potrebbero persino rappresentare questa fase; una fase che non comporta una sintesi bensì un superamento per entrambi, laddove ciascuno dei due sta per un medium, il cui destino è quello di evolversi; magari incontrandosi, e da questo incontro, nato come uno scontro, romantico ed evocativo, passare allo step successivo, senza però mai fondersi. Gemini Man, più che le traversie del doppio Will Smith, è perciò cronaca di un avvicendamento, le cui implicazioni al momento si possono appena sfiorare, ma rispetto alle quali non si può rimanere indifferenti, mosso com’è l’intero progetto da un misto di amore e lucidità che lo rendono oltremodo imperfetto, perfino mediocre in alcuni suoi aspetti. Eppure, al netto di certe sue maldestre rinunce (o forse proprio in funzione di queste), vivo e coinvolgente quanto basta.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”6.5″ layout=”left”]

Gemini Man (USA, 2019) di Ang Lee. Con Will Smith, Clive Owen, Mary Elizabeth Winstead, Benedict Wong, Ralph Brown, David Shae, Linda Emond, Theodora Miranne, Kenny Sheard e Tim Connolly. Nelle nostre sale da giovedì 10 ottobre 2019.