Genius: recensione in anteprima del film in Concorso a Berlino 2016
Se è vero, come è vero, che Genius è cinema popolare, di certo è pure di quello buono. La storia dell’editor Max Perkins e della sua amicizia con Thomas Wolfe
Max Perkins (Colin Firth) lavora come editor presso la Scribner’s Sons. Siamo alla fine degli anni ’20, New York, ma non per questo l’occupazione di Perkins ha alcunché di glamour: il suo mestiere è quello di leggere libri, tanti libri, in realtà allo stato di bozze. A lui tocca insomma capire se e quali tra questi contenga le tracce di un libro, dopodiché renderlo adatto a stare su uno scaffale. «L’editor deve restare uno sconosciuto», sentenzia Perkins; è vero, potrai anche aver sputato sangue su quel libro, ma il tuo nome non comparirà da nessuna parte, non importa quale sia stato il tuo contributo.
Nel parlare di una storia vera, Genius finisce con l’essere un film sul processo creativo e sulle potenziali ripercussioni nella vita di più persone. È questa un’altra pista possibile, ovvero quella per cui ad essere toccati da un fenomeno del genere non sono soltanto gli artisti, i diretti interessati, bensì anche quelli che stanno loro accanto.
Thomas Wolfe (Jude Law) non riesce a trovare un solo editore disposto a pubblicare il suo primo libro, quello che poi diverrà Look Homeward, Angel. Fino a che il mastodontico manoscritto di oltre mille pagine non arriva sulla scrivania di Perkins, il quale, nel corso di una sola notte, decreta essere uno di quei pochi che meritano assolutamente di essere letti. La macchina viene messa in moto e l’eccentrico Wolfe, dapprima incredulo, si ritrova a dover disciplinare la sua verve e farsi guidare da quello che di lì a poco diverrà il suo mentore; esatto, Perkins.
Se non si trattasse di una storia vera, quasi si sbufferebbe dinanzi all’ennesimo genio maledetto, oltremodo versato nelle lettere quanto pessimo nei rapporti interpersonali, oltre che dalla vita privata generalmente burrascosa. Tuttavia la storia dice questo: alcuni dei più grandi scrittori del ‘900 erano dei conclamati ubriaconi. Tre di questi sono passati proprio sotto l’egida di Perkins, sebbene ciascuno di loro si rapportasse in maniera diversa col vizio. Uno è Wolfe, per l’appunto, l’altro è F. Scott Fitzgerald, mentre il terzo è Ernest Hemingway. Tre personaggi diversissimi, ancora di più come scrittori.
In una scena del film Wolfe accompagna Perkins presso un locale frequentato solo da neri, dove si suona del meraviglioso blues; si discute sul ritmo e su come questa sia la matrice, la cifra reale di ogni scrittore. Certi brani sono belli, ma familiari, troppo rassicuranti; altri invece sono come un «brutto gorilla», un’esplosione d’originalità: «lo senti? Questo sono io, Tom Wolfe!» esclama il nostro non appena il gruppo cambia spartito.
I due binari, ossia quello relativo all’Arte e quello inerente alla persona, in realtà non si separano mai del tutto in Genius; ora i due sono chiusi in una stanza a cercare di vaporizzare trecento pagine da un libro troppo corposo per essere pubblicato; ora invece Perkins si ritrova nella scomoda situazione di dover assistere ai battibecchi tra Wolfe e la moglie (Nicole Kidman), con quest’ultima che per lungo tempo si strugge all’idea di aver perso il marito alla Letteratura. E ancor di più la addolora averlo perso per un altro uomo, Perkins, che in quel preciso momento è l’unica persona al mondo di cui Wolfe ha considerazione.
Genius è il classico film di cui non riesci a parlar male senza per questo vergognartene. Tutto è studiato a tavolino per funzionare, dal ritmo ai dialoghi, passando per quel ventaglio di emozioni e sentimenti che solo certo buon cinema popolare riesce a indurre. La commozione, per esempio, l’indignazione, l’ira, la rassicurazione laddove il nostro protagonista, con cui si crea un ponte, supera almeno uno dei suoi conflitti. Senza però limitarsi a tutto ciò.
En passant, Genius descrive pure la frustrazione delle donne di quel tempo, naturalmente non prese sul serio quando si tratta delle loro ambizioni artistiche. Entrambe le mogli, di Perkins e di Wolfe, hanno un debole per il teatro, se non fosse che la loro potenziale carriera in realtà è secondaria, non perché “la donna deve occuparsi della casa” e cose così; semplicemente perché non è nell’habitus mentale dell’epoca considerare il gentil sesso, salvo rare eccezioni, portatrici di un contributo quale che sia – in questi giorni abbiamo visto A Quiet Passion di Terence Davies, per esempio, che su questa tematica qui praticamente è basato.
Jude Law si dimostra ancora una volta uno degli attori più sottovalutati in circolazione, e sinceramente continuiamo a non spiegarcene il motivo. Ok, qui in più occasioni strafà, ma l’impronta teatrale è comunque connaturata ad un progetto che vede il debutto dietro la macchina da presa di un regista di teatro già affermato in quel di Londra, ovvero Michael Grandage. Trattandosi peraltro di un ruolo cucito su misura, dato che Law quando si tratta di interpretare farabutti in balia di sé stessi, che alla fine si perdonano, lui ha il viso, il portamento e l’aria perfetta (viene in mente Alfie).
Insomma, tra le opere meno da Festival tra quelle in Concorso, Genius è quella che se l’è cavata meglio sino ad ora. Non ci si lasci ingannare dalla sua etichetta, che allude a un prodotto destinato a priori alla sala. Perché di spunti su cui riflettere ne offre e lo fa adottando il medesimo metodo di Perkins, uno che, per deformazione professionale, era solito andare al cuore del problema, con un motto implicito scritto sulla fronte, che compariva ogni qualvolta uno scrittore si rivolgesse a lui: «stay simple». Fai le cose semplici, non strafare. Una regola aurea, comprensibile da tutti; solo un genio, però, è davvero in grado penetrarne a fondo il significato.
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[rating title=”Voto di Federico” value=”5″ layout=”left”]
Genius (Regno Unito/USA, 2016) di Michael Grandage. Con Colin Firth, Jude Law, Nicole Kidman, Laura Linney e Guy Pearce.