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Gli anni venti, un grande laboratorio anche per noi persone

“The Danish Girl”, un tipico film inglese in costume dopo la prima guerra mondiale: tutto cambia. Cambiano anche le persone. Un giovane artista scopre di avere dentro di sè un corpo di donna

pubblicato 6 Settembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 13:01

Se Marguerite, la cantante stonata, in un film francese ci ha riportato negli anni Venti a Parigi e dintorni (melodramma, primo jazz, prime caves), Tom Hooper ci trasferisce dalla Danimarca in Inghilterra e nel resto d’Europa, per raccontare “quel qualcosa di stonato” sta accadendo a un giovane artista sposato a un compagna di accademia, sposato senza figli, un primo segnale.

I segnali su “qualcosa” che non va in questo giovane dall’aspetto molto romantico, sottile, dai tratti del volto molto femminili sono diversi ma il vero “qualcosa” accade per un’idea della moglie, quasi uno scherzo. Ovvero, l’idea di travestirlo da donna e di ritrarlo e ottenere un risultato pittorico che piace a esperti e a galleristi, il successo, e quattrini sempre sognati.

Da qui parte la storia che si ispira a un romanzo di David Ebershoff, a sua volta dedicato a un fatto vero, accaduto. Gli anni Venti hanno così sullo sfondo d’arte, musica, spettacolo molti aspetti particolari, speciali. Brividi e paura. I brividi e la paura di non sapere,a volte, ma sempre più spesso (come succede oggi in ogni parte del mondo) di quale genere, di sesso, si è.

Il pubblico scoprirà che Tom Hooper sa il fatto suo e dimostra molto bravo, fin troppo (fino alla leziosità), nello sviluppare un nodo che è una serpentina di emozioni, un grumo che sovverte i rapporti e comportamenti. La sorpresa della moglie di fronte a una trasformazione che lei stessa ha spinto e organizzato è il nodo drammatico. Trattato con misura ed eleganza, per la bravura di lei che,certo, ha un ruolo più diretto, più preciso nella sua evoluzione di quello del giovane artista, sulle cui spalle si appoggia un peso quasi insostenibile: entrare e uscire dall’uomo e fare la donna, sempre più distante l’uno dall’altro, in un tormento e in una ambiguità che si susseguono difficili da controllare.

Questa fase centrale dei film è la migliore, la più forte, la più sentita, tra amore incertezza ricerca speranza, resa a ciò che preme dentro e vuole uscire, conquistare la persona e farne un’altra, da uomo a donna.

Negli oziosi e ridanciati anni Venti, ventre del Novecento dove guerre e tramuti mettono le fondamenta per creare il secolo dei mutamenti in ogni senso, in questo film torna come in “Marguerite” una borghesia alta e media che civetta nei salotti e nelle feste, sicura di se stessa e delle sue continue albe dopo i tramonti. E’ la classe che lentamente si avvia a una crisi invano tenuta nascosta sotto modi e costumi quasi leggiadri e orgogliosi. Ma il tempo non lascia tempo.

Forse il regista di “Il discorso del re” si è trovato di fronte alla difficoltà di concludere: entrano in studi medici, torture a cui viene sottoposto dal giovane per togliergli da dentro la donna che preme proprio dentro, operazioni chirurgiche difficili e addirittura dolorosamente sperimentali.

E’ qui che viene fuori la cadenza, il tono delle fiction tv (tv da cui Hooper proviene, bravissimo, carico di premi). Perchè non era facile andare alla conclusione, al dilà dei fatto reale a cui ci si rifatti. Emergono esorcismi narrativi. Una realtà di dolore e di speranza condotta per mano fino a piccoli e grandi tocchi , leziosi, che tendono a togliere imbarazzi nello spettatore.

Il diritto di trovarsi del giovane artista che vuole essere donna, sposa, e madre, avrebbe avuto bisogno di maggiore intimità con la storia e migliore comprensione, fuori della trappola della fiction, anche super, superfumettistica.

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