Gli infedeli: video teaser, foto, locandina italiana e interviste ai registi
Oggi Cineblog si concede uno sguardo approfondito sulla commedia francese Gli Infedeli, con due video teaser e la locandina in italiano, foto e interviste ai registi
Dopo The Artist, Michel Hazanavicius e Jean Dujardin tornano insieme sul grande schermo dirigendo la chiacchierata commedia francese ad episodi “Les Infidèles”, a 14 mani con Emmanuelle Bercot, Fred Cavayé, Alexandre Courtes, Eric Lartigau, Gilles Lellouche.
Quattordici mani per sette registi e altrettante variazioni sul tema dell’infedeltà maschile, tra conquiste, insuccessi e trucchi usati e abusati dagli interpreti del film, che conta Jean Dujardin e il Gilles Lellouche di Piccole bugie tra amici, Lionel Abelanski, Fabrice Agoguet, Pierre Benoist, Violette Blanckaert, Vincent Bonnasseau, Bastien Bouillon, Guillaume Canet, Célestin Chapelain.
La BiM porta Gli infedeli sui nostri schermi solo il prossimo 4 maggio, anche se il contenuto e lo stile del film è già noto a parecchi grazie alla bufera e la censura scatenata in Francia delle locandine “maschiliste” del film, che non hanno comunque impedito a Dujardin di portarsi a casa un bell’oscar come miglior attore maschile per The Artist, e alle quali oggi aggiungo due dissacranti video teaser (soprattutto il secondo, dopo il salto), la locandina italiana, qualche foto e le interviste con i registi dei vari episodi ..
Gli Infedeli – foto e locandina
Jean Dujardin & Gilles Lellouche, attori e registi dell’episodio «Las Vegas»
Come è nato questo progetto atipico?
JEAN – Il progetto è frutto di una serie di desideri e di idee che coltivavo da molto tempo. Innanzitutto c’era la voglia di fare un film a episodi, un formato cinematografico che consente una grande varietà. L’idea del tema mi è venuta dopo aver sentito la storia di un tizio che, per tradire sua moglie, andava al cinema, comprava un biglietto e staccava il telefono prima di andare a spassarsela. Quando tornava a casa, alla moglie che gli chiedeva perché non fosse raggiungibile sul cellulare, esibiva il biglietto del cinema come prova… Ho trovato questo espediente molto interessante. Il tema dell’infedeltà offriva un terreno di gioco appassionante. L’ultimo elemento riguarda il titolo che si è imposto quando, scorgendo di sfuggita la copertina del DVD del film di Martin Scorsese THE DEPARTED, il cui titolo francese è LES INFILTRÉS, ho letto per errore LES INFIDÈLES… A quel punto ho avuto la forma, il tema e il titolo.
Come si è formato il vostro duo?
GILLES – Jean e io ci conosciamo da molto tempo. Come spesso capita in questo mestiere, avevamo voglia di lavorare insieme e avevamo alcuni progetti un po’ campati per aria. Ma quando Jean mi ha parlato di questo progetto per la prima volta, ho subito accolto con molto entusiasmo l’idea di poterlo realizzare completamente insieme, condividendo fino in fondo la nostra visione artistica e la nostra grande amicizia.
JEAN – Tra Gilles e me c’è una forte intesa. Entrambi siamo sempre in cerca di avventure umane e la prospettiva di lavorare insieme ci allettava moltissimo. Apparteniamo alla stessa generazione, condividiamo gli stessi gusti, la stessa sensibilità e un reciproco rispetto per il nostro lavoro. La nostra collaborazione si è imposta da sola e tutto è avvenuto con naturalezza in uno slancio incredibile.
Come avete scelto le varie storie del film?
JEAN – Il grande vantaggio di un film a episodi consiste nell’offrire un’autentica varietà di spunti. Abbiamo potuto affrontare l’argomento da diversi punti di vista, dal più giovane al più maturo e profondo, con personaggi più o meno caricaturali, vicini a noi e distanti da noi. Abbiamo cercato di scandagliare il tema, proponendo delle angolature che esprimano anche le differenze di età e di ceto sociale e che illustrino diverse situazioni, da quelle da incubo a quelle delle fantasie… Abbiamo iniziato a lavorarci facendo una serie di riunioni piuttosto informali e ridanciane con i nostro co-autori, Stéphane Joly, Philippe Caverivière e Nicolas Bedos. Abbiamo ideato una serie di piccoli film potenziali, almeno una trentina all’inizio, e in seguito abbiamo fatto una selezione. L’unico denominatore comune era la libertà di tono e umorismo, che tuttavia non impediva di toccare note patetiche o cupe.
GILLES – Abbiamo accumulato idee, scritto e lavorato con alcuni autori e poi abbiamo scelto i soggetti, sia in base alla forza della tipologia, sia in base alle emozioni che risvegliavano in noi. Il divertimento e il desiderio di interpretarli che ci suscitavano sono stati due criteri determinanti nella nostra scelta. Numerosi soggetti si sono imposti con naturalezza e sono quelli che si sono rivelati più interessanti con il passare del tempo.
Malgrado il film sia composto di varie storie che mettono in scena personaggi diversi, permane una sensazione di continuità…
GILLES – Ogni film risponde a un altro. Senza voler rivelare i dettagli di ogni storia, si può dire che ogni segmento termina in qualche modo dove inizia il segmento successivo.
JEAN – All’inizio avevamo pensato di separare ogni film dandogli un titolo, ma ci siamo resi conto che sarebbe stata una struttura pesante. Partendo da un primo sketch che comincia all’inizio del film e si conclude alla fine, si fissa il fulcro del tema attraverso quei due protagonisti. Volevamo un tono leggero per fare entrare gli spettatori nell’argomento a fianco dei due amici che vanno a caccia, con delle riflessioni molto dirette. Poi, però, abbiamo iniziato a farci un’interminabile serie di domande su come concatenare e ordinare gli episodi.
Come avete dosato il tono generale?
JEAN – Abbiamo cercato di accantonare la paura di essere troppo seri o troppo duri. Volevamo sentirci liberi sia nel formato sia nel tono, poter spaziare in un livello profondo o restare a un livello più superficiale, passare da un’analisi più riflessiva e rimbalzare poco dopo nel caricaturale, mescolare i generi mantenendo un tono sincero. Il nostro desiderio era dire certe cose, esprimerle nella recitazione, a volte giocare con i cliché oppure scalfire i preconcetti, sganciandoci da quelle «leggi» che la teoria vuole regolino i generi cinematografici.
GILLES – In nessun momento ci siamo sentiti censurati. Pensiamo che il pubblico non abbia voglia di vedere dei film formattati, che rispondano solo ai codici che vengono applicati a livello commerciale. Non desidera che gli vengano offerti sempre gli stessi film. Ognuno di noi come spettatore ha voglia di essere sorpreso da una storia diversa, piena di inventiva e vivace.
Qual era per voi l’intento di questo film?
JEAN – Alla base c’era il desiderio di ogni attore di interpretare delle situazioni diverse. Io avevo voglia di misurarmi con un certo eccesso, di andare lontano nei dialoghi e nel corpo. Ci rivolgiamo ad adulti liberi e consenzienti. L’obiettivo non è scioccare gratuitamente, ma avere la libertà assoluta e andare fino in fondo alle cose, proporre situazioni divertenti, un po’ sovversive, che sconvolgono e suscitano una reazione. Era questo che volevamo. Avevo vissuto la stessa situazione con il film OSS 117 e il pubblico si chiedeva se poteva osare lasciarsi andare alle risate. Se uno ha voglia di ridere, perché non dovrebbe farlo?
GILLES – Avevamo anche nostalgia di una certa libertà irriverente, come quella che troviamo nei film di Blier o nella commedia all’italiana, per esempio ne I MOSTRI – il film a episodi di Dino Risi con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi.
Il fatto di lavorare a un soggetto del genere ha provocato discussioni?
GILLES – L’obiettivo era sfruttare determinate situazioni, non discuterne. Le situazioni erano una materia, uno sfondo.
JEAN – Ci siamo serviti di questo tema per incarnare uomini deboli, sfuggenti, vigliacchi, scaltri. Un sogno!
Avete avuto difficoltà a mettere insieme il progetto?
JEAN – Ci dicono spesso che siamo «bankable», che garantiamo il successo, che almeno questo serva a riuscire a realizzare un film! Se non fossimo quello che siamo nel nostro mestiere, probabilmente sarebbe stato tutto molto più complicato. Che gioia poter far parte di un progetto dall’inizio alla fine, assumendosi la responsabilità di ogni aspetto, del nostro buon gusto come del nostro cattivo gusto!
GILLES – Per noi questo progetto ha rappresentato una grande boccata di aria fresca. A volte capita che più sei conosciuto, più pretendono da te una serie di cose, più la morsa si stringe e più hai la sensazione di essere sempre meno libero. Rifare quello che hai già fatto è un errore. Equivale a scegliere un copione in funzione del suo potenziale successo, della fama che hai conseguito, senza voler correre dei rischi. È il modo migliore di annoiarsi e di diventare molto noiosi.
In quale momento avete deciso di ricorrere a registi diversi e come li avete scelti?
JEAN – Fin dall’inizio del progetto, abbiamo deciso di non dirigere noi perché l’impegno sarebbe stato troppo oneroso. Abbiamo scelto i registi sia in base all’affinità sia in funzione del contributo che avrebbero potuto apportare alle storie. Non erano interscambiabili. Abbiamo proposto ad ognuno la storia che meglio corrispondeva al suo universo. Per «La bonne conscience», ho istintivamente pensato a Michel Hazanavicius. Sapevo che il suo senso dello sfasamento e la sua regia avrebbero aggiunto qualcosa di divertente e di significativo. Per il «Prologo», ci voleva qualcuno di vivace, incisivo, molto poliedrico, abile nel rendere un’intensità visiva e di scrittura, con una grande energia nel montaggio e nella scelta dei stacchi. Fred Cavayé era la persona ideale.
GILLES – Emmanuelle Bercot ha una grande intelligenza e una grande sensibilità, basta vedere la sua collaborazione con Maïwenn in POLISSE. Era evidente che l’episodio «La question» era perfetto per lei. Nel caso di Eric Lartigau, tutto il suo lavoro, dalle commedie a L’HOMME QUI VOULAIT VIVRE SA VIE, indica una mentalità attenta al sociale e un approccio diretto che ci hanno attirato. La scelta di affidargli «Lolita» è stata quindi coerente. Conoscevo Alex Courtès da molto tempo e se non è ancora molto famoso come cineasta, le sue regie di video musicali sono note a livello internazionale. Il suo universo visivo molto forte si esprime in modo meraviglioso nelle piccole pillole che si alternano tra gli sketch prima di sfociare nell’incontro degli «Infedeli anonimi». Mettendo insieme dei talenti così variegati, il nostro intento era di offrire dei colori diversi al film.
Ognuno degli episodi mostra anche attori diversi in una veste inedita… Come li avete scelti?
JEAN – Per alcuni, la scelta si è imposta da sola, come nel caso di Géraldine Nakache, Sandrine Kiberlain o Alexandra Lamy. Si sono calate nei loro personaggi in modo impressionante. Anche Guillaume Canet non poteva non far parte della nostra avventura e lo abbiamo utilizzato in contro-ruolo. Abbiamo scelto di lavorare con persone che stimiamo e quindi ci siamo rivolti, tra gli altri, a Manu Payet e Isabelle Nanty. Sono tutti grandi attori. Senza che noi avessimo dato loro alcuna indicazione, si sono presentati sul set con un’idea precisa dei loro personaggi. Per esempio è stato Guillaume a decidere di dotare il suo di quella pettinatura da rimbambito. Non abbiamo avuto bisogno di evidenziare alcunché né di spiegare il testo. La sola attrice che abbiamo scelto con un provino è stata Clara Ponsot che interpreta la ragazza di cui Gilles, nei panni dell’ortodontista, è innamorato nello sketch «Lolita».
Jean, in un episodio lei recita insieme a sua moglie, Alexandra Lamy. È stato strano interpretare una coppia che si confronta su un argomento del genere creando un gioco di specchi?
JEAN – Alexandra e io sappiamo molto bene dove finisce la finzione. Non confondiamo mai la nostra vita privata e il nostro lavoro. Recitiamo una parte. Con Alexandra avevo già vissuto questo tipo di interpretazione e questo peraltro ci ha permesso di spingerci ancora più in là. Abbiamo ritrovato un po’ quello che avevamo vissuto in teatro con «Due sull’altalena».
Le riprese sono state particolari quanto la concezione e la scrittura del film?
GILLES – Abbiamo girato i vari episodi uno dopo l’altro. Anche se uno dei due è più presente in alcuni film, Jean e io eravamo praticamente sempre insieme sul set, visto che ognuno faceva almeno un’apparizione nell’avventura dell’altro. Ciascun episodio costituisce una vera e propria storia a sé, il film non è una successione di gag. Anche se nessuno l’ha mai detto esplicitamente, ogni regista si preoccupava di quello che facevano gli altri e questa pressione è stata utile al progetto che è diventato un condensato di energia pura grazie alla volontà di ciascuno di fare del suo meglio, in un clima gioioso.
JEAN – Già il semplice fatto di avere sette registi diversi era di per sé un po’ particolare, anche per la troupe. Ma è stato uno degli aspetti che ha reso il progetto così interessante. Ogni lunedì ripartivamo con un altro regista, in un altro luogo e in un altro ambiente, con personaggi diversi. Non ci annoiavamo mai!
Come siete arrivati a realizzare uno sketch?
JEAN – Realizzando noi stessi l’episodio che conclude il film, abbiamo chiuso il cerchio. È stato l’ultimo che abbiamo girato. Abbiamo finito insieme e a Las Vegas!
Come avete diretto in due?
GILLES – Sempre al servizio delle situazioni. Capitava di passare da una sequenza molto frammentata a un’inquadratura fissa che consentiva di ricreare un’atmosfera fin nella sua vacuità. Questo ha creato un contrasto e una sensazione che non si osa spesso proporre al cinema.
JEAN – Contrariamente a Gilles, la regia per me è una novità. Abbiamo seguito il nostro istinto sul momento ed è stato fantastico perché ci assomigliamo molto. C’erano molte situazioni diverse da rendere e in un contesto folle come Las Vegas, questo legame è stato ancora più forte.
Sapete dire cosa rappresenta questo film per voi oggi?
JEAN – GLI INFEDELI mi ha ricordato a che punto adoro proporre un progetto, fare squadra, coinvolgere le persone. Mi piace questo aspetto della “banda”. Ma non ho un desiderio particolare di darmi alla regia. Probabilmente questo film resterà uno dei grandi momenti della mia carriera, gioioso, libero, diverso, condiviso con amici che hanno talento. Ho molta voglia di ricominciare a recitare. Ho fatto commedie e film più seri e mi diverte alternare e mescolare i generi. Mi piace il fatto che vari gradi di umorismo e di genere funzionino bene insieme. Questo esercizio mi permette di proporre qualcosa di diverso, di non fossilizzarmi nel ruolo di THE ARTIST. Non voglio essere identificato con un unico personaggio e con un’immagine precisa, voglio sorprende sempre, a rischio di bruciarmi le ali. Non è un calcolo da parte mia, è la mia natura. Contrariamente a quanto credono alcuni, non ci aspetta nessuno da nessuna parte. Quindi il solo fatto che questo film esiste mi rende felice.
GILLES – Ho la sensazione che GLI INFEDELI sia un po’ un condensato di tutto quello che è possibile per Jean e me. Realizzare insieme un lungometraggio con una tale dose di energia nella recitazione e di complicità è stato fantastico. Il film mi ha anche confermato la mia voglia di stare dietro alla macchina da presa. È stata un’esperienza molto forte in termini di incontri, di scambi, di lavoro, sia con i nostri colleghi attori, sia con gli altri registi. All’inizio avevo l’impressione che il progetto fosse percepito dagli altri come una sorta di capriccio di due ragazzi viziati, come se non ci rendessimo conto di quello che stavamo per fare, mentre noi ne avevamo un’idea molto precisa. Siamo stati fortunati a incontrare delle persone disposte a seguirci e a permetterci di andare fino in fondo. Grazie all’energia e all’impegno di tutti, il risultato va al di là delle nostre aspettative. Non mi dispiacerebbe fare un film con Jean ogni tre/quattro anni, una sorta di appuntamento fisso…
Dopo aver trattato l’infedeltà maschile, non è tentato di abbordare il tema dal punto di vista femminile, con delle donne?
JEAN – Ci stiamo pensando e anche da quella prospettiva ci sarebbe molto da dire!
Emmanuelle Bercot regista di «La Question»
Come è entrata a far parte di questo progetto?
Jean Dujardin mi ha contattata proponendomi la regia di un episodio che avrebbe interpretato insieme ad Alexandra Lamy. La prospettiva di girare con loro due per me era un sogno e quando ho letto la sceneggiatura mi sono entusiasmata. Metteva una coppia di fronte alla domanda pericolosa che tutti hanno voglia, o temono, di porsi. Senza aver letto le altre sceneggiature, i nomi dei vari registi davano già un’idea dell’ambizione del progetto e sono stata felicissima alla prospettiva di farne parte.
Come ha vissuto il fatto di essere la sola regista in questo film molto maschile?
L’ho percepito come un privilegio, come quando nell’adolescenza una ragazza viene accettata in una compagnia di maschi! Ma in realtà è una differenza che non è mai stata evidenziata in modo esplicito, anche se credo che Jean ci tenesse che questo episodio fosse diretto da una donna.
Come ha affrontato questa regia?
Di solito mi interessa più filmare le persone che raccontare una storia. Quando scrivo i miei film, utilizzo un vocabolario molto naturalista. Su questo progetto, la sceneggiatura molto scritta avrebbe potuto spaventarmi un po’, ma non ho avuto paura leggendola e mi sono resa conto della difficoltà solo sul set. Tutto il senso del lavoro era che Alexandra e Jean lo interpretassero in modo molto realista, pur rispettando i dialoghi così come erano scritti. Nicolas Bedos ha un’espressione che rende bene: «non si deve sentire l’odore della carta». La sfida era creare un’ambientazione che non fosse né teatrale, né distaccata, né stilizzata.
Tutti sanno che Alexandra e Jean sono sposati. Cos’ha provato guardando questa coppia interpretare una situazione molto particolare?
Alexandra e Jean sono innanzitutto due bravissimi attori. Vederli dar vita insieme a questa storia è effettivamente un gioco di specchi e non so se avrebbero avuto una tale intensità se avessero recitato con altri partner. Penso che sarebbero stati altrettanto credibili, ma il fatto che siano una vera coppia aggiunge una dimensione ulteriore. Per me, il fatto di dirigere due coniugi nella vita aumentava il grado di verità. Non l’ho mai chiesto loro, ma immagino che abbiano fatto entrambi molte riflessioni!
Ha scelto di filmarli molto da vicino. Come ha lavorato sullo stile delle riprese?
Non li ho informati del fatto che avrei utilizzato dei primi piani così stretti. Volevo cogliere quella materia emotiva che emana dalla loro recitazione. È anche per questo che a volte ho tenuto alcune riprese delle prove. Il minimo fremito doveva essere percettibile, quindi non avevo altra scelta che tenere la macchina da presa molto vicina a loro e anche piuttosto fissa. Mi interessava arrivare al cuore della loro coppia di attori virtuosi. Hanno moltissima tecnica e sono abituati a recitare insieme e la mia idea era di farli uscire da questa loro padronanza senza che se ne rendessero conto. Nella scena della cucina in particolare, Alexandra è estremamente acuta: vediamo veramente il suo viso disfarsi sullo schermo. Penso che non abbia del tutto padroneggiato questa sequenza e tanto meglio! Peraltro Jean mi ha detto che, in alcuni momenti di quella scena, ha visto una Alexandra che non conosceva, il che significa che si è lasciata sfuggire qualcosa che io volevo assolutamente cogliere. Anche nel caso di Jean sapevo cosa volevo catturare: desideravo andare a cercare l’emozione oltre l’aspetto ludico di quel brillante scontro verbale.
Come ha lavorato con loro?
Essendo l’ideatore del progetto, Jean aveva una visione molto precisa di quello che voleva e questo episodio gli stava veramente a cuore. Mi lasciava una grande libertà, ma interveniva in modo molto intelligente sulla lavorazione. Jean si prepara e riflette moltissimo. Io sono soltanto un’istintiva. All’inizio ero un po’ travolta dalla sua capacità di fare proposte e osservazioni dopo averle meditate, ma ci siamo incontrati e abbiamo realizzato questo film in perfetto accordo. Il fatto di avere pochi giorni a disposizione per le riprese cambia inevitabilmente il ritmo. Nel momento in cui cominci a capirti e a familiarizzare, le riprese sono già finite. Ma considero un regalo l’aver potuto lavorare con Jean, Alexandra e Gilles.
In cosa l’hanno sorpresa?
Non sono abituata a lavorare con attori così propositivi. In genere, do indicazioni molto precise sugli spostamenti e i movimenti e in questo caso mi sono subito resa conto che tutto quello che loro facevano in modo naturale non era assolutamente in linea con quello che avevo previsto. Ma, invece di cercare di riportarli verso di me, mi sono sforzata di andare io verso di loro, laddove coglievano meglio la situazione. Hanno un loro modo di sottoporre il testo alla prova del corpo. Se qualcosa negli spostamenti, nei movimenti o nella postura impedisce loro di calarsi nella recitazione, di esprimere con autenticità il testo, nel caso specifico di essere l’uno con l’altra, ritengono che qualcosa nella messa in scena non funzioni e hanno ragione. Riflettono sempre molto sul significato di una scena. Le loro proposte erano spesso molto valide e quindi ho cercato di dirigerli in modo tale da valorizzare quello che davano. Gli attori e il regista hanno bisogno di trovarsi. Non appena ci siamo capiti, sono riuscita a ottenere risultati sempre maggiori. Mi ha sorpresa anche la loro inesauribile energia e il loro investimento nel lavoro. Sono molto presenti e si dedicano anima e corpo a quello che fanno. È davvero impressionante e io non c’ero abituata. Il mio episodio è l’unico a offrire uno spaccato della prospettiva femminile. Per questo ci tenevo assolutamente ad aprirlo con un primo piano di Alexandra e a far sì che la sua bellezza si irradiasse durante tutto il film. La trovo magnifica e mi piace che il pubblico la scopra diversa da come la conosce. Il cinema è anche il piacere di filmare delle belle persone e loro due formano una coppia cinematografica che io trovo super sexy!
Cos’ha pensato del film nel suo insieme?
Ho riso molto, certe scene mi hanno fatto arrossire, altre mi hanno commossa. Ho trovato tutto l’insieme straordinariamente vivace e originale e mi ha colpito molto la sensazione che non sia una serie di episodi, ma un solo e unico film, malgrado ogni sketch sia molto originale e rispecchi l’universo di ciascun regista.
Cosa le ha dato questa esperienza?
L’incontro con Alexandra, Gilles e, naturalmente, Jean mi ha insegnato moltissimo. Per la prima volta, non ho scritto io la sceneggiatura. Per la prima volta, ho girato con delle star e non è una cosa da poco. Per la prima volta, ho lavorato con un attore che è al tempo stesso produttore, combinazione rara e molto complessa. Se la mia inclinazione naturale è di lasciarmi guidare dall’istinto, qui ho imparato a riflettere di più. È stata un’esperienza umana e professionale abbastanza straordinaria, malgrado sia stata molto impegnativa, molto densa e io ne sia uscita centrifugata!
Fred Cavayé regista del «Prologo»
Cos’ha pensato del progetto quando l’ha scoperto?
Il punto di partenza è al tempo stesso artistico e amichevole. Jean e Gilles hanno messo insieme un gruppo di persone che apprezzano per fare quello che amano. Già questo è allettante! Quando Gilles mi ha contattato, lui e Jean cercavano qualcuno capace di fare un film ritmato, molto vicino ai personaggi, quindi consono a me. Il mio episodio apre il film e corrisponde all’episodio che Jean e Gilles hanno realizzato a Las Vegas, collocato più avanti. Poiché si tratta degli stessi personaggi, avrei dovuto leggere tutta la sceneggiatura per assicurare una coerenza al ritratto psicologico. Invece ho letto solo il mio segmento e il loro, per preservare il mio piacere di spettatore nello scoprire gli episodi realizzati dagli altri registi. Il risultato è che quando ho visto il film concluso, sono rimasto sorpreso, sbalordito e commosso. Si passa dal riso all’emozione in una specie di patchwork molto efficace che esplora numerose sfaccettature. Senza usare giri di parole, sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla ricchezza dei temi e dalla qualità del loro trattamento. È al tempo stesso un unico film e un insieme di film diversi.
Come ha affrontato questa regia?
Andare nella direzione di una storia che non avevo scritto io è stato un vero e proprio esercizio di stile al quale non mi ero mai dedicato. Ho cercato di dare un ritmo alle loro idee, facendo ricorso in particolare alle ellissi come non le avevo mai utilizzate prima. Il mio montatore, Benjamin Weill, ha montato la prima scena come si montano di solito i film d’azione. Il prologo parte in quarta sui tre personaggi nell’appartamento e poi segue i due amici che parlano. Le battute si rispondono, a volte in ambienti diversi, in giro in bici, in un bistrò, per strada, nella notte. I loro discorsi costituiscono il filo conduttore al di là di ogni continuità temporale e ci portano velocemente fino alle ore piccole. Come per ogni film, l’approccio alla regia si basava su uno scambio, ma qui il procedimento era più collegiale rispetto a un film di impianto classico e questo spirito è prevalso anche sul set. Ero presente in veste di regista, portando delle idee, con la voglia di contribuire a questo progetto atipico, come tutta la troupe.
Come si sono svolte le riprese?
Per sette giorni ho girato con un cast che mi era stato imposto, per mia enorme fortuna! Conoscevo il modo di recitare di Gilles, ma non quello di Jean, né quello di Géraldine Nakache e sono state due grandi scoperte. Jean dà prova di avere un’impressionante forza comica. La sua capacità propositiva è immensa. Su una sceneggiatura molto scritta, non smette di estrarre delle piccole pepite di recitazione che la arricchiscono ancora di più. Non è un caso se è arrivato dove è oggi! Malgrado sia stata eliminata al montaggio, voglio comunque parlare di una scena molto indicativa delle sue capacità: Gilles e lui sono in un ascensore e il testo è molto lungo, talmente lungo che mentre giriamo, io penso che stanno scendendo almeno cinquanta piani! È il primo ciak. Finiscono di recitare il testo, Jean fa una pausa e si gira verso Gilles esclamando: « Merda, credo di non aver schiacciato» e preme il bottone. Mentre recitava, si era reso conto anche lui del problema e aveva inventato una soluzione che si integrava brillantemente nel dialogo. Questo aneddoto simboleggia alla perfezione tutta la sua intelligenza.
E Géraldine Nakache?
Il primo giorno delle riprese abbiamo iniziato girando la sequenza nell’appartamento in cui lei si arrabbia con i due amici. È la scena di apertura del film, il nucleo del soggetto. Sono in due contro una e lei tiene loro testa, respingendo la palla con una potenza che incute rispetto, pur facendoci ridere. Per me, un bravo attore deve essere sincero in tutte le situazioni. Géraldine può interpretare qualunque parte. Dà il massimo in tutte le riprese ed è giusta ogni volta. Mi ha sconvolto, l’ho trovata straordinaria. Sono un suo grande fan!
Cos’ha scoperto su Gilles Lellouche?
Non l’avevo scelto per À BOUT PORTANT per un caso. Come Géraldine e Jean, Gilles è un bravo attore perché quando recita non si vede che sta recitando. È credibile in tutto quello che fa. Che si tratti di un dramma o di una commedia, ha la stessa intensità di recitazione.
Cosa ne pensa del tema dell’infedeltà?
A rischio di passare per un ingenuo, trovo che l’infedeltà non sia una bella cosa! E magari mi sbaglio, ma credo anche che sia un fenomeno prevalentemente maschile. Le donne sono spesso più integre e meno vigliacche di noi e tendo a pensare che preferiscano lasciare più che tradire. Del resto, il film funziona bene perché gli infedeli sono degli uomini che vengono derisi. I due «eroi» sono due cretini patentati!
Per me, che ho una compagna di cui sono innamorato, fare un film sull’infedeltà è stato una finzione totale. Tra i 20 e i 43 anni, sono stato più single che accoppiato e sono intimamente persuaso che una coppia non possa durare nell’infedeltà e nella menzogna. Sono troppo inflessibile per giocare a quel gioco. Se dovessi essere infedele, avrei l’impressione di tradirmi a ogni parola.
Cosa rappresenta questo film per lei?
Un’esperienza! Fare una commedia è stato interessante per me che non ne avevo mai fatte. Malgrado avessi già realizzato tre cortometraggi, queste riprese sono state un po’ frustranti: sarei rimasto con questi attori più a lungo. È stato davvero speciale. Sarà il solo momento della mia carriera in cui mi sono sentito dire «Fine delle riprese per Fred Cavayé». È stato piuttosto surreale! Di solito, si dice «Fine delle riprese» per gli attori, ma non per il regista che se ne va per ultimo, come il comandante di una nave. Tutta la troupe mi ha organizzato un brindisi di saluto. Io me ne andavo e loro restavano. Poiché sono stato il primo a girare, hanno tutti preso i riferimenti contemporaneamente a me, ma per loro era solo l’inizio. Poiché ho aperto le danze, probabilmente ho avuto la fortuna di beneficiare di una maggiore preparazione rispetto a chi è venuto dopo. Per gli altri credo che sia stato più complicato, ma la troupe era fantastica, siamo andati molto d’accordo.
Ha imparato qualcosa sul suo mestiere, sui suoi desideri?
Si impara sempre qualcosa. La scoperta della commedia mi ha appassionato. È un genere che già come spettatore mi ha sempre attirato moltissimo. Il regista ha spesso la fortuna di essere il primo spettatore del film e quando è recitato nel modo in cui è recitato il Prologo, è nella posizione migliore. Spesso i miei film hanno pochi dialoghi perché i personaggi sono nell’immediatezza. A mio parere, il cinema è essenzialmente immagine e, per fare un paragone con Jean, THE ARTIST è l’essenza del cinema. Gli attori spesso dicono che il testo è una stampella. Quando un attore urta qualcosa, può dire «Che male!», può gridare «Ahia!», oppure può recitare. È meglio quando recita. Questo film mi ha quindi dato uno scorcio di commedia. Jean ha vinto il premio per la miglior interpretazione per THE ARTIST a Cannes durante le nostre riprese. L’indomani è tornato sul set e tutti lo hanno applaudito. Sono momenti unici. È stato un piacere. Il film è atipico e offre al pubblico qualcosa di vario, di libero e di sincero, lontano dal “politicamente corretto”. E credo che la gente abbia bisogno di questo.
Alexandre Courtès regista delle pillole e di «Infedeli anonimi»
Come è entrato a far parte di questo progetto?
Sono amico di Gilles Lellouche con cui condivido l’agente che ha visto THE INCIDENT, l’horror che avevo appena finito di girare e che uscirà sul grande schermo nel marzo 2012. Le è piaciuto e ha parlato di me ai produttori!
I film comici fanno molto parte della mia cultura ed ero anche felice di girare con il mio amico Gilles. Sono rimasto affascinato sia dalla squadra che via via è stata messa insieme, composta da persone mosse a lanciarsi nel progetto solo da buone intenzioni, sia dal soggetto stesso del film. Non essendo sposato, non sono direttamente coinvolto dal tema del mio episodio, «Infedeli anonimi», ma mi piace molto l’idea e penso che il tema non lasci nessuno indifferente. La sceneggiatura nel suo insieme mi ha fatto molto ridere, la trovo veramente rinfrescante rispetto a tanti argomenti convenzionali che possono essere proposti al cinema. Mi piace anche il fatto che il film sia composto di diversi episodi e che assomigli nel tono a film che non avevano timore di essere stridenti, come I MOSTRI dI Dino Risi.
Anche se è relativamente nuovo nell’universo del cinema, è già un grande professionista dell’immagine…
Effettivamente giro videoclip da dieci anni. Ho lavorato, tra gli altri, con i Daft Punk, gli U2, gli Air, Jamiroquai e i White Stripes e in genere faccio cose abbastanza grafiche. Ho anche realizzato alcune pubblicità. Invece, non avevo mai fatto cortometraggi cinematografici e quindi per me questo progetto è stato un po’ un esercizio di stile. Fortunatamente, avevo appena ultimato le riprese del mio lungometraggio ed ero preparato. Ho realizzato le pillole di un minuto che costellano il film e che presentano i personaggi infedeli che ritroviamo in seguito tutti insieme nel mio segmento, «Infedeli anonimi».
Si è ritrovato a dirigere attori famosi…
Anche se lavoro molto con l’Inghilterra e gli Stati Uniti e quindi ho spesso a che fare con divi anglosassoni, è la prima volta che giro con attori francesi. I quattro ruoli maschili principali erano già assegnati e l’opportunità di lavorare con Jean, Gilles, Guillaume e Manu mi ha insegnato tantissimo. Sono dei pezzi grossi! Lavorare con Sandrine Kiberlain per la riunione finale ha rappresentato un’altra scoperta. Sola in mezzo a uomini abbastanza chiusi, secondo me è straordinaria. Recita su un registro in cui abitualmente non la vediamo ed è impressionante. Ha avuto anche l’enorme merito di restare seria…
Gli Infedeli è un progetto promosso da una coppia di attori, due artisti che sono quindi ai comandi. È raro, ma è anche un po’ quello che succede con i videoclip…
Sono abituato a lavorare nella scia di artisti capaci di imporre il loro punto di vista. Avendo collaborato con gli U2, ho imparato a riuscire a gestire le tensioni, che peraltro sono state minori nel clima amichevole della lavorazione di questo film. Per la prima volta ho girato un film in cui dodici persone erano riunite un po’ come per un banchetto. Le mie riprese sono durate quattro giorni, due per le pillole e due per la sequenza lunga. Non c’era tempo da perdere! Fortunatamente gli attori erano molto dotati e molto professionali, visto che avevano un grande lavoro da fare. Sandrine aveva il testo più lungo e di fronte a lei c’erano tutte le reazioni dei suoi «pazienti»…
Cos’ha pensato vedendoli recitare tutti?
Sono tutti dei gran lavoratori, ma poiché le riprese duravano solo due giorni, non abbiamo potuto provare e abbiamo girato senza rete, costruendo pezzo a pezzo. Manu ha interrotto un altro set per venire a lavorare con noi e ha quindi dovuto adattarsi a una nuova famiglia. Sandrine era perfettamente a suo agio. Era il progetto di Jean e Gilles e loro si comportavano come i fratelli maggiori del gruppo. Abbiamo lavorato per dosare in modo equilibrato e umoristico i vari ruoli e alla fine ogni personaggio ha un suo peso.
Cosa le ha insegnato questa esperienza sul suo mestiere?
Il registro della commedia era una novità per me. Devo ammettere che per un esordio ho avuto molta fortuna, sia per il livello della sceneggiatura sia per gli interpreti di cui disponevo. Tanto in termini di direzione degli attori quanto in termini di messa in scena, il progetto era estremamente denso. Il ritmo non era quello di un lungometraggio classico, ma sono abituato a dirigere in un’atmosfera carica di energia e lo trovo piuttosto stimolante. Non so se avrò un tale lusso sul piano umano e di scrittura in eventuali progetti futuri, ma questo film mi ha fatto venir voglia di ricominciare.
Cos’ha pensato del film completo quando lo ha scoperto?
Sono stato felice di constatare che ne suo insieme il film assomiglia abbastanza a Gilles e Jean. Conosco bene Gilles, ma ho scoperto Jean. Ho ritrovato tutte le sfumature che ha voluto mettere sia nella recitazione sia nel progetto: l’aspetto dolceamaro, senza caricature, un desiderio di profondità. Trovo anche che, benché Jean e Gilles siano i promotori del progetto e siano stati coinvolti in tutte le fasi, i vari registi non si sono diluiti nell’insieme. Sono riconoscibili i diversi stili di regia e i toni differenti e questo dà un respiro davvero ampio al film senza minimamente privarlo della sua coerenza.
Le resta un ricordo particolare?
Le riprese sono state talmente veloci e intense che mi sembra che siano durate molto più a lungo di quanto effettivamente non siano state. Fin dalle prime inquadrature, dove ho dovuto prendere i miei riferimenti, alla scoperta della recitazione degli attori, passando per il rompicapo degli innumerevoli raccordi con la segretaria di edizione, tutto è stato molto intenso.
Sono rimasto impressionato nel vedere il modo in cui Jean padroneggia la sua recitazione e la macchina da presa. Non dimenticherò le risate a crepapelle con Gilles e con Guillaume per le scene del cane. Con Manu non ci conoscevamo e abbiamo iniziato girando la scena in cui lui frusta una donna anziana nel suo garage. È stato piuttosto singolare come approccio alla materia, ma quell’umorismo nero, graffiante, ci calzava perfettamente…
Michel Hazanavicius regista di «La Bonne Conscience»
Quando ha sentito parlare del progetto per la prima volta?
Jean me ne aveva parlato mentre stavo scrivendo THE ARTIST. Credo fosse un progetto che aveva già da molto tempo. Dopo gli ultimi film che interpretato, che erano piuttosto seri, penso avesse molta voglia di fare una commedia e mi ha subito proposto di dirigerne una parte.
Cosa ha pensato della sua idea?
Molte persone paragonano Jean a Belmondo, ma io ho sempre sostenuto che trovo in lui un aspetto alla Vittorio Gassman. Inoltre il progetto aveva qualcosa delle commedie italiane un po’ crudeli degli anni ’60-’70, anche nella forma del film a episodi. Io non ho idee preconcette: per me conta la sceneggiatura, a prescindere dalla struttura di un film. Se il copione è buono, il film piacerà. Non esistono divieti, tranne quello di agire con cinismo in qualunque cosa. Nel caso specifico, essendo un grande amante della commedia all’italiana che ho appena citato, non ho avuto alcuna esitazione.
Qual è la sua opinione sull’infedeltà?
Per contro, avevo qualche dubbio sul tema e l’ho detto fin dall’inizio. Non mi hanno dato retta e di sicuro hanno fatto bene. Ma non è un argomento verso il quale sarei andato spontaneamente. Sento che non mi appartiene: esco di rado, ho quattro figli e sono innamorato di mia moglie. Del resto, mi è stato affidato il film che ritrae un perdente che non è capace di tradire sua moglie e mi è andato benissimo! In ogni caso, la mia opinione sull’infedeltà non mi impedisce di amare il mio lavoro.
Forse l’ha attratta il carattere atipico del progetto?
È possibile, anche se non ricerco a tutti i costi questo aspetto. Scelgo di fare le cose in cui credo e di cui ho voglia. Si tratta di un film che non ho ideato io e mi ha interessato lavorare su un formato piuttosto corto e far parte di un progetto collettivo. E poi c’era il fatto che me l’ha chiesto Jean. Mi ha proposto «La bonne conscience» dicendomi che erano tutti d’accordo che fosse l’episodio adatto a me. Non ho nemmeno discusso, mi sono sentito perfettamente a mio agio!
Qual è stato il suo contributo a questa storia?
Ho bisogno di una struttura per capire quello che faccio e affinché i dettagli si iscrivano in un movimento che arriva a superarli. Ho quindi sviluppato alcuni dialoghi, certe situazioni, determinati personaggi… Ma si tratta di un semplice adattamento. Quello che conta, a mio giudizio, è il quadro d’insieme, il primo movimento, il personaggio che è nella scena.
Ci parli dei suoi interpreti…
È il quarto film che realizzo con Jean. Credo di poter affermare che tra noi c’è un’autentica complicità. Si fida di me e ci piace lavorare insieme. Posso chiedergli di chinarsi mentre è completamente nudo e di allargare le natiche davanti alla macchina da presa e lui è pronto a farlo. Per un attore della sua statura, è difficile dare una dimostrazione di fiducia più grande nei gusti di un regista.
Gilles è un attore che adoro, con il quale sono stato molto felice di lavorare. Continua a migliorare e a crescere. Ha realmente acquisito sicurezza e autorevolezza come attore.
La scelta degli attori è stata fatta con grande intelligenza. Io ho operato alcune scelte e, in ogni caso, ne ho discusso con Jean che è il produttore e il co-autore. Non si è trattato di stabilire se lui avesse o meno la priorità nella scelta: ho cercato di fare in modo che si sentisse bene ed è in questo stato d’animo che ha recitato con Isabelle Nanty, Charles Gérard, Lionel Abelanski e Nathalie Levy-Lang, che interpreta sua moglie. Sono tutti attori che adoro. Isabelle Nanty è un’attrice straordinaria con cui sono stato contentissimo di lavorare.
Lei si è cimentato in tutti i formati cinematografici. Qual è la particolarità di lavorare su un film così corto?
Il mio sketch dura circa 22 minuti, una durata non lontana da quella di un episodio di una serie televisiva. Potrebbe persino essere un episodio pilota con personaggi di grande umanità a cui il pubblico deve affezionarsi. Bisogna trovare un equilibrio. Uno spot pubblicitario è più semplice: è uno schiaffo, una toccata e fuga. E in trenta secondi c’è una situazione, una battuta, a volte un’altra, l’epilogo e hop, è finito! È velocissimo. Avevo già fatto dei cortometraggi, ma era da molto tempo che non sperimentavo un formato corto. È bello!
Ha riscoperto dei “riflessi” in questo esercizio un po’ particolare?
Abbiamo girato in un unico ambiente, un albergo che abbiamo quasi trasformato in un monolocale. E poi avevo una buona troupe, quasi identica a quella di OSS 117 con la segretaria di edizione, Isabel Ribis, il primo aiuto regista, James Canal, e il direttore della fotografia, Guillaume Schiffman. Mi sono mosso su un terreno che conosco molto bene.
Come ha affrontato la sua regia?
Di solito, un regista si occupa di tutta la preparazione del film e i collaboratori si inseriscono nel suo flusso di energia: attori e tecnici si uniscono a lui pian piano e lui elargisce un po’ a tutti. In questo caso, è stato un po’ diverso perché c’erano sette registi. Il ruolo del regista comporta il fatto che imponga qualcosa. Se non lo fa, non fa il suo mestiere. Ma allo stesso tempo, a livello concreto, nella cronologia della costruzione di questo film particolare, io sono arrivato quarto e la troupe era già lanciata, aveva già filmato un sacco di personaggi molto variopinti. Il mio compito è stato dunque quello di essere molto più pacato, perché vedevo così il mio film, con un ritmo più lento… È un punto di vista di cui ho dovuto convincere tutti, fino al montatore, visto che c’era una costante ricerca di energia e di ritmo. È naturale che sia stato complicato per loro. Ma hanno avuto fiducia in me e mi hanno permesso di far durare le inquadrature come le sentivo io. Ho affrontato il mio episodio dicendomi che in fondo il protagonista è un infedele che non tradisce sua moglie. Quindi non succede un gran che e ho lavorato attorno a questa nozione di «nulla», di vuoto, operazione piuttosto complessa, dal momento che è necessario dare delle indicazioni sulla noia, la non-azione e il vuoto in un ritmo di commedia, e piuttosto rischiosa, ma spero che funzioni. In quest’ottica, il montaggio ha un’importanza capitale, perché è in quella sede che si impone il ritmo e nella fattispecie il ritmo falsato.
Cosa conserverà di questa esperienza?
Un’avventura gioiosa e leggera. Sono contento del film, mi piace il suo spirito. E poi, è un nuovo capitolo del mio lavoro con Jean, e questo è molto piacevole.
Eric Lartigau regista di «Lolita»
Come ha reagito quando le hanno proposto il progetto?
Mi sono entusiasmato e preoccupato. Entusiasmato per l’ambizione del progetto, per le persone che me lo proponevano e per il modo in cui si sarebbe realizzato. Preoccupato per la prospettiva da cui sarebbero state proposte le storie, la paura che ne uscisse un film misogino. Sono stato chiamato a dirigere il segmento «Lolita» che offre uno sguardo abbastanza duro sui quarantenni e sulle giovani spensierate che si prendono gioco di tutti. Questa storia mi tentava perché, per me, l’aspetto interessante del cinema è la possibilità di lavorare sugli attori, sulla materia umana, di vedere come reagiscono le persone in determinate situazioni e la sceneggiatura che mi era destinata consentiva tutto questo. Ma volevo sapere in quale avventura stavo per imbarcarmi e ho chiesto di leggere i copioni degli altri episodi per vederne l’atmosfera. Ci sono molti modi di trattare l’infedeltà… Se non mi fossero piaciute le altre sceneggiature, se non avessi riscontrato una coerenza, un interesse autentico, non avrei accettato l’incarico. Mi sono reso conto che il film proponeva una cosa ben diversa dall’umorismo giovanilistico e poneva delle vere domande, senza tuttavia impartire lezioni. Lo spettatore è un semplice testimone che osserva questi ragazzi che devono destreggiarsi tra desideri e pulsioni, da punti di vista ogni volta diversi. In fondo è questa la forza del film.
In questo contesto, come ha caratterizzato la sceneggiatura che le è stata destinata?
La storia illustra una situazione, un incontro che può capitare a chiunque. Chi può giurare che non perderà la testa per una ragazza? Chi può essere sicuro che in seguito non si troverà disarmato davanti a lei? Il personaggio dell’ortodontista interpretato da Gilles sembra avere tutto quello che un uomo possa desiderare: una bella moglie, dei figli in gamba, una situazione confortevole… Eppure esce dai binari. È un personaggio estremamente toccante che è impossibile giudicare. Ognuno di noi può trovarsi nella sua situazione. L’intento del film non è quello di dare lezioni, ma, ancora una volta, questa diversità di linguaggio rispetto alla situazione dell’infedeltà è al tempo stesso, toccante, sorprendente, coinvolgente. Mi piaceva la fragilità del protagonista e il suo modo paradossale di vivere quest’esperienza, poiché sentiamo che, malgrado tutto, è profondamente innamorato di sua moglie.
Il formato corto le avrà sicuramente ricordato diverse cose…
Per Canal +, avevo realizzato numerose fiction brevi e anche vari episodi di serie televisive, come «H» e «Les Guérins», da 22 a 26 minuti, nei quali lo svolgimento della trama proseguiva o aveva dei rimandi nei diversi episodi. Per «Les Guignols», la durata era da tre a quattro minuti. Adoro questo formato perché mobilita tutte le energie e l’ho ritrovato ne GLI INFEDELI dal momento che c’era la necessità di raccontare una storia dall’inizio alla fine in un lasso di tempo piuttosto breve. Tutti i registi erano immersi in questa stessa dinamica.
Non ha partecipato alla fase iniziale del progetto. In che modo questo ha cambiato il suo approccio?
Ha stuzzicato il mio interesse. Anche se non hanno diretto, Jean e Gilles erano l’anima del progetto. Ogni regista si è trovato ad affrontare un film non suo. Nessuno di noi aveva scritto la sceneggiatura e Gilles e Jean erano i protagonisti di ciascun episodio. È stato necessario entrare nella loro storia cercando di contribuire con il proprio stile. Anche se erano aperti alle nostre proposte, avevano una visione molto forte. Nel mio sketch, Gilles è il protagonista e Jean fa delle apparizioni. Il vantaggio è stato la fiducia che hanno mostrato a tutti, lasciandoci fare, e questa è stata una cosa molto piacevole che ci ha responsabilizzati parecchio. Paradossalmente, la pressione è stata meno forte in fase di preparazione rispetto a quando si prepara un proprio film, ma è tornata sul set e alla fine delle riprese. Registi, produttori, troupe, attori hanno fatto parte di una squadra e si sono sostenuti a vicenda. Formavamo una cosa sola e ognuno di noi desiderava raggiungere lo stesso obiettivo ambizioso in uno slancio condiviso.
Alla fine delle riprese ho parlato con gli altri registi. Per noi tutti, essere completamente al di fuori di un progetto ed essere al tempo stesso completamente coinvolti ha rappresentato un’esperienza molto interessante.
Sapeva che Gilles avrebbe interpretato il protagonista, ma come avete scelto l’attrice che incarna la ragazza di cui si innamora?
La scelta dell’attrice era determinante per il tono della storia e l’ho operata insieme a Jean e Gilles. Ci siamo detti che se per il ruolo di Lolita avessimo scelto una ragazza veramente affascinante, una bomba di seduzione, la situazione sarebbe potuta diventare esplosiva in qualsiasi momento.
Preferivo un tipo così a una specie di bambolina molto carina, ma vuota e inespressiva. Clara Ponsot è davvero bella e molto spiazzante ed è in grado di emanare una grande carica. Appena è entrata nella sala dei provini ho capito subito che Lolita era lei, per quanto sciocco possa sembrare. Il suo spessore aggiunge una dimensione supplementare alle intenzioni: al di là dell’adulterio, contribuisce con un sentimento, un turbamento.
Come ha lavorato con Gilles e Clara?
Ovviamente Gilles aveva un’idea del suo personaggio, ma da straordinario attore quale è, ha saputo affidarsi. Abbiamo parlato, affinato il testo e sulla base della sceneggiatura, che era molto precisa, ho potuto dare il mio contributo al personaggio e alla sua evoluzione. Mi interessava l’umanità del personaggio di Gilles. Anche l’energia della ragazza di cui si innamora era molto importante: se non si percepisce quello che la rende particolare e affascinante, non si capisce perché un uomo come quello che interpreta Gilles si trovi in quella situazione impossibile. Mi è piaciuto che quella specie di ritmo che avevo in mente sia stato a tratti scosso da Clara e Gilles, dal loro modo di ascoltarsi e rispondersi. Tutto questo ha amplificato il senso.
Come definirebbe il tono del suo film?
Il mio segmento di sicuro non è il più divertente e ha addirittura momenti piuttosto seri, come quando Gilles aspetta Clara nella sua auto e la vede uscire dalla discoteca. Questa ricchezza di toni è uno dei punti di forza del progetto. Ha delle cose molto divertenti e altre decisamente più cupe. In ogni caso, considerando la situazione, il mio protagonista può uscirne soltanto sulle note della commedia. Davanti a quella giovane donna è penoso. È questo aspetto umano che mi ha sempre interessato e che mi interesserà sempre: le fragilità di ciascuno di noi.
Cos’ha pensato del film Gli Infedeli quando lo ha scoperto nella sua totalità?
Sono rimasto molto colpito dal modo in cui ogni regista si è impadronito delle idee di Jean e Gilles. Il lavoro di ognuno è particolare e tuttavia c’è una coerenza di fondo. È stato molto eccitante scoprire il film che conoscevo solo sulla carta. Questa sorta di omogeneità, malgrado le storie basate sullo stesso tema siano molto diverse tra loro, è davvero curiosa. Si incrocia una galleria di personaggi eclettici. Il film si basa su molte emozioni diverse, su vari stili, al servizio di un soggetto che non lascia indifferente nessuno.
La forza del film risiede nella sua diversità, nell’energia che sprigiona da esso. Associamo momenti in cui ci pieghiamo in due dal ridere ad altri in cui ci poniamo degli interrogativi osservando le spaccature all’interno delle coppie. Il film va dal realismo all’assurdo, con il coraggio di andare fino in fondo. Vedendolo, mi sono sentito felice come un bambino, arrivando persino a dimenticare che ne avevo realizzato io un pezzo da quanto mi sono lasciato coinvolgere dalla sua totalità. Rivedendolo in seguito, ho scoperto altre battute, altri dettagli, che mi erano sfuggiti la prima volta perché ridevo troppo.
È in grado di capire cosa rappresenta per lei questa esperienza nel suo percorso personale?
Questa settimana di riprese è stata un’esperienza appassionante, dal punto di vista professionale e umano. Ho finalmente avuto occasione di lavorare con Guillaume Schiffman, il direttore della fotografia, con cui peraltro sono amico da molto tempo. Ho scoperto Jean, la sua finezza e le sue osservazioni sempre molto pertinenti. Veder funzionare il tandem che forma con Gilles è davvero bello. Anche lavorare con Gilles era un desiderio che avevo da tempo e sono stato felice di ritrovarlo su un set.