Gravity: Recensione in Anteprima
Parte a razzo la 70. Mostra del Cinema di Venezia, che apre ufficialmente con Gravity di Alfonso Cuarón. Film fuori concorso ma in assoluto tra i più attesi di questa edizione, e che finalmente si palesa in anteprima mondiale al pubblico intervenuto qui al Lido
La vita nello spazio è impossibile! Così come sarebbe stato pressoché impossibile pensare pensare di realizzare un film come Gravity appena dieci anni fa. Ma forse anche cinque, vista e considerata la non breve lavorazione dell’ultima fatica targata Alfonso Cuarón. A conti fatti, però, non è su queste due impossibilità che Gravity si sofferma: vi orbita attorno, come i detriti che innescano gli spettacolari eventi che ci trascinano con sé per un’ora e mezza da mozzare il fiato.
Novanta minuti vissuti in apnea, bomboletta d’ossigeno alla mano, mentre si viene travolti da un’esperienza ai cui titoli di cosa si arriva stremati, provati da un misto di sensazioni meravigliosamente poco convergenti. Perché in Gravity si sorride, ci si inquieta e si soffre: di nausea, di claustrofobia, di vertigini. Una pellicola che ridà prepotemente senso non solo alla sala, ma quasi di conseguenza anche al 3D – e quest’ultima, a ben vedere, è la vera notizia. Semplicemente inconcepibile quest’articolato coacervo di immagini oltremodo suggestive senza il ricorso ad una tecnica che definire sopraffina è davvero dire poco. Tecnica che carica pesantemente quanto scorre sullo schermo, dotando Gravity di un vigore visivo e narrativo che non si era mai visto fino ad ora.
Facile entusiasmo, il nostro? Non vorremmo sul serio che lo fosse. E se a siffatta speranza aggiungessimo che la nostra trattasi di una mera constatazione, probabilmente non renderemmo ancora pienamente giustizia. Ma dove sta la grandezza di Gravity? No, non soltanto nell’atteggiarsi all’ennesimo blockbuster d’autore (riuscendoci alla grande, peraltro). No, il film di Cuarón traccia inequivocabilmente una rotta nuova per il cinema mondiale tutto; percorso chiaramente costellato di precursori, dal miglior Zemeckis ad altri illustri cineasti che nell’avvento di nuove, talvolta impressionati tecnologie hanno saputo vedere ben altro che la pura forza bruta, per lo più fine a sé stessa. Gravity è essenzialmente un modo innovativo non tanto di fare cinema quanto di raccontare una storia. Eminente traguardo che, di riflesso, pone il tutto come cinema di altissimo livello. Siamo proprio allo step successivo.
Mettiamo le mani avanti: è un peccato che non tutti potranno o vorranno sperimentare di persona quanto appena evidenziato. Perché la piena resa di Gravity è saldamente legata a doppio filo alla sala, per giunta a quella meglio dotata, ossia tecnicamente adeguata a proiettarlo. Ahimè sappiamo che tutto ciò non vale per tante, troppe sale, specialmente nel nostro Paese – se non altro perché è quello che ci interessa più da vicino. Limitata o inesistente accessibilità che grida vendetta al cospetto della Settima Arte, che finalmente potrebbe aver trovato una delle principali chiavi di volta di questo sacro Graal cinematografico che è divenuta la tecnica: aggressiva, sempre più asfissiante alla luce delle istanze espresse da certa industria, in larga parte sita ad Hoolywood, che si ostina a maneggiare questo potente strumento come il Moon-Watcher di kubrickiana memoria con il celeberrimo osso.
Una licenza, quest’ultima, non del tutto casuale ma che ci siamo voluti concedere al di là di claudicanti e troppo frettolosi paragoni, che già adesso mostrano il fianco a non poche riserve. Anzitutto perché, come in parte già accennato, Gravity è un’opera intrisa di narrazione fino al midollo, e che in nessun caso rema contro questa sua connaturata ambizione e propensione, vale a dire raccontare una storia. Storia che, in superficie, è anzitutto quella di tre astronauti vittime di un rocambolesco incidente. Dopo un interminabile, bellissimo pianosequenza, infatti, la distesa ma spettacolare atmosfera viene improvvisamente ribaltata da una sciagura di portata epocale. A seguito del disgraziato avvenimento, due dei tre astronauti restano isolati mentre fluttuano nel vuoto, senza comunicazioni, senza un modo per raggiungere l’unica meta che s’impone dal primo istante: casa, la Terra.
Ad un certo punto, però, dopo aver disseminato minuscoli frammenti qua e là nella prima parte, il film cambia gradualmente registro. Sino all’apice di questo processo, quando il contesto richiede un piccolo sforzo allo spettatore per entrare nella nuova pelle del racconto. In un aggraziato avvicendarsi di cambi di prospettiva, Gravity si produce in una delle sue virtù più luminose, quella che ci trasporta letteralmente dalla terza alla prima persona con un’eleganza unica, ma soprattutto funzionale. Niente sembra lasciato al caso nello sfoggio di bravura tecnica di quest’opera; ogni movimento di camera, ogni stacco, ogni elemento che si muove sullo schermo appare al proprio posto. Così come sostanziali sono certi scorci sullo sfondo, in fuoco o meno che siano: un lavoro meritorio, concepito e condotto con una maestria invidiabili.
E che dire del suono? Ecco la prima, sfumata metafora di Gravity, che tende ad impreziosire in maniera vistosa anche il più apparentemente insignificante dei suoni, degli effetti. Come? Semplicemente servendosi in maniera dignitosa del silenzio, componente di estrema rilevanza in Gravity. E qui si apre una voragine speculativa, sulla quale non possiamo che soffermarci, sebbene a stento.
Perché riducendo la descrizione di Gravity ai minimi termini, diremmo che il film di Cuarón illustra la storia di un parto, la cui gestazione viene fatta durare ai nostri occhi 91 minuti anziché i canonici nove mesi di gravidanza. A suggerircelo, in modo a dire il vero poco equivocabile, certi palesi rimandi concettuali per immagini: lo stato fetale della Bullock dentro la capsula; i numerosi «cordoni ombelicali»; la scenografica caduta di detriti che, a contatto con l’atmosfera terrestre, rievocano la folle corsa degli spermatozoi in prossimità dell’atto della fecondazione. Insomma, com’è facile arguire alla luce di quanto appena espresso, questa è la storia di una rinascita. Perché di questo ha bisogno uno dei due protagonisti, ossia di rinascere a nuova vita dopo che qualcuno di caro se l’è portata via con sé. Perdita quale vero motore, come si può ricostruire solo a posteriori, quando il seppur determinante episodio della nefasta collisione iniziale viene ridimensionato da una messa in scena che assume un senso ben più alto e complesso.
Bravi Clooney e la Bullock, sebbene non si possa dire che le loro prove facciano marcatamente pendere l’ago della bilancia, in un verso o nell’altro: brillante il primo, centrata la seconda, senza exploit di sorta. Tuttavia anche loro contribuiscono all’encomiabile riuscita di un film che non molla lo spettatore per un solo istante, incalzandolo in qualunque modo possibile dall’inizio alla fine. Gravity si dilata lungo l’intero arco della sua durata, non sprecando nulla, spremendo al massimo tutto quello che c’è da spremere. E ci riesce contro tutto e contro tutti, anche a dispetto di chi, stavolta non senza responsabilità personale alcuna, non riuscirà ad avvertirne l’impatto. Perché se qualcuno mancherà di essere lassù con uno dei protagonisti, se non sarà quel protagonista, a ‘sto giro bisognerà seriamente domandarsi se il problema non lo riguardi molto da vicino anziché il contrario.
Non è questione di ridefinire un genere, un settore o addirittura un intero medium. Il punto è che Gravity, in ultima analisi, riesce nell’impresa di far vivere quanto mostra come nessuno ha mai fatto sino ad ora, in un modo al quale oramai sembrava si sarebbe arrivati tra chissà quanto tempo – e non di certo per penuria di mezzi. E con elementi che, in termini di mera narrazione, si limitano a pressoché due ambientazioni (diciamo una e mezza) e due soli personaggi: tanto basta per cotruirci sopra una storia e per trasporla in modo formidabile. Solo allora, quando ci troviamo totalmente in balia di certe immagini, ha un senso chiedersi cosa sia questa gravità, che, come vuole la definizione vera e propria, altro non è che una forza che attrae. A quel punto non resterà che compiere il passo successivo, ponendosi un ulteriore, tremendo e forse definitivo quesito: verso dove ci attrae tale forza?
Voto di Antonio: 10
Voto di Gabriele: 9
Voto di Federico: 10
Gravity (USA, 2013) di Alfonso Cuarón. Con Sandra Bullock, George Clooney, Ed Harris, Orto Ignatiussen, Phaldut Sharma ed Amy Warren. Nelle nostre sale da giovedì 3 Ottobre.