Guardo di lontano il Festival di Cannes… nostalgia?
Al Palais della Croisette non hanno voluto i tre film italiani proposti e la stampa italiana si vendica esaltandoli
Le impressioni da lontano vanno prese per quello che sono: impressioni; che però possono essere utili perché le sfilate di moda del cinema qualcosa trasmettono. I Festival, da Venezia a Cannes, sono sempre state prestigiose passerelle anche oggi se le chiamano redcarpet. Per molti anni, da quando sono nati, hanno cambiato stile e orientamento. Venezia, nata nel 1932 per iniziativa di nobili e albergatori veneziani (del Lido), ha badato a fare pubbliche relazioni per Mussolini che aveva scelto il cinema come l’arma più forte: porte aperte al nemico, inviti e riconoscimenti, per il cinema sovietico, ovvero il fascismo apriva la porta ai comunisti, d’accordo con i nazisti. Poi la guerra, la seconda guerra mondiale, ruppe gli incanti e il cinema fu messo provvisoriamente stand by.
Cannes è venuto dopo la guerra con il suo Festival nato sempre per far sfilare le pellicole sulla Costa Azzurra, meta turistica nel cellophane di una fioritura di pellicole di tutto il mondo. Venezia più colta, Cannes più mondana. Ed è andata avanti così la storia non solo di Venezia e Cannes ma di tutti i festival nel globo, con altre fioriture nel freddo dei paesi dell’Est e più tardi del Canada, con isolate, appartate attività festivaliere anche in clima caldi o caldissimi, dall’Africa all’America Latina. Fuochi d’artificio, spezzoni di celluloide sparsi come petali ovunque, fin troppi.
Ecco il problema di Cannes e di tutti i festival: la difficoltà di scegliere e di cambiare. Sono le stesse adunate di padri venerabili che vengono da ere remote, prima della tv e della esplosione del cinema e delle sue tecniche. Le sempre più sorprendenti novità tecniche facilitano produzione e distribuzione ma, a quanto pare, non la creatività, se non in parte. I festival sono club sempre più grossi, che subiscono la tentazione del supermercato e la voglia spasmodica di essere ancora i luoghi della alta cultura cinematografica, una sorta di università sfibrata.
E’ quel che accade soprattutto, nonostante tutto, anche per il Festival di Cannes in corso che, in un ambito generale, sembra scontentare i suoi partner di sostegno (come la multinazionale della comunicazione Vivendi); e in un ambito più specifico. quello artistico e di rapporti artistici, scontenta anche se non sembra i suoi partner alimentatori di creatività, come l’Italia che ha patito il rifiuto di tre suoi film candidati al concorso principale. Quelli di Bellocchio (Fai bei sogni) e di Virzì (La pazza gioia) sono stati poi recuperati nelle rassegne cosiddette minori, comunque prestigiose; e le trombe italiane, tutti i media compresi, si sono accollate il solito ruolo di salvatori della patria. Grottesco.
Ci sono due cose da notare. Cannes e Venezia sono macchine oliate e andranno avanti. La domanda di base è: va bene, ma come? Circola un pessimismo greve e ingiusto. Specie in Italia, dove l’abitudine schizofrenica di passare dall’Insulto (“il cinema italiano è il più brutto del mondo”) si accoppia alla solidarietà e all’entusiasmo gonfi di doppiezza e di vuoto.
I Festiva devono rivedersi, non c’è dubbio. I “cinema” pure. Gli americani hanno i totem come Woody Allen e Steven Spielberg; tutti gli altri paesi, anche il nostro, spolverano giovani che non lo sono più o santoni d’antan. Mentre fuori, fuori dai giardini fioriti dei Festival nostalgie, premono tanti che fanno cinema, ma proprio tanti, una folla di disperati inascoltati, non visti, visti e non capiti,gleba dei ciak elettronico, anarchici scontenti in attesa di giudizio.