I Pay For Your Story: recensione del documentario vincitore al Filmmaker 2017
Dopo la retrospettiva dedicatagli nel 2014, si rivede al Filmmaker Lech Kowalski, tornato nella sua città natale, Utica, per la morte della madre. Nel tentare di capire come quei luoghi siano cambiati negli anni, ne viene fuori un ritratto impietoso sugli USA di questo periodo. La provincia quale specchio di una società che evita il confronto con ciò che è diventata
«Non sarà/sarò/saremo una statistica». Lo sentiamo ripetere spesso in I Pay For Your Story, ultimo documentario di Lech Kowalski. C’è quest’ansia di sentirsi un numero, che è più una consapevolezza, alla quale però non ci si vuole arrendere. Il regista di D.O.A., rockumentary che riporta quella che fu la scena punk rock di fine anni ’70, opera underground come poche, ritorna a casa: Utica, lì dov’è cresciuto insieme alla sua famiglia emigrata dalla Polonia. Si dice che Detroit per le automobili, Rochester per le macchine fotografiche e Utica per le radio; ciascuno di questi posti è infatti stato epicentro di produzione di queste rispettive cose. Ma com’è Utica oggi?
Solo alla fine Kowalski s’accorge che, qualunque cosa sia diventata questa cittadina nei pressi di New York, a suo modo rappresenta gli USA nel suo insieme. Gli viene infatti voglia di girare per altri posti e fare la stessa cosa che ha fatto per questo documentario, ossia mettere delle persone davanti alla macchina da presa e fare loro raccontare la storia della loro vita. Ma c’è un ma, come da titolo… queste persone sono pagate.
È un po’ l’esperimento, se vogliamo, che Kowalski mette in piedi: io ti pago 15 dollari, tariffa standard, e tu mi vendi una parte di te, quanto grande lo decidi tu, quanto veritiera pure, purché insomma non mi lasci a mani vuote. Ciò che se ne ricava è sconfortante: chi più chi meno, tutti hanno avuto problemi con la giustizia, qualcosa per cui stanno ancora pagando. A sentir loro, molte persone di colore, a Utica si delinque perché non c’è letteralmente altro modo per tirare a campare.
Altro refrain è infatti quello relativo alla sopravvivenza: se devi sopravvivere l’entità delle tue malefatte non può che venire ridimensionata. Un ritratto senza speranza, che fa male specie quando nell’inquadratura ad entrare sono bambini di pochi anni, i cui genitori non fanno che ripetere di volergli risparmiare le infanzie che hanno vissuto loro stessi. Il che è contraddittorio, se si pensa che qualche istante prima magari si è detto che a Utica non c’è possibilità di miglioramento.
Il problema è il lavoro, manco a dirlo, che scarseggia all’inverosimile: si parla spesso di Wendy’s o McDonald’s, e viene da chiedersi come mai vi sia un riciclo di assunzioni così significativo (diversamente perché presentare la propria application?), perché la gente preferisce andare a mangiare in questi posti. Non si tratta di dare addosso al junk food, se non di constatare delle incongruenze, dovute per lo più, come già accennato, alle testimonianze contraddittorie degli intervistati.
Certo, non è facile. Uno di loro, un omaccione non particolarmente giovane, che ha scontato una pena di tredici anni, dice che adesso sta rigando dritto, che un lavoro ce l’ha ma dal quale non guadagna nulla perché rientra nel programma rieducativo al quale è stato appioppato. Che mito quello della riabilitazione, e I Pay For Your Story ce ne dà l’ennesima conferma: queste persone escono da una galera, quella propriamente detta, per infilarsi in un’altra gabbia, la quotidianità.
Gli unici soldi che arrivano a Utica, stando a sentire i diretti interessati, servono a foraggiare programmi di recupero che non servono a nulla, che concretamente non hanno portato a nulla. D’altro canto se provano ad alzare la testa, questa gli viene riabbassata seduta stante: alla domanda «hai precedenti penali?» non tocca perciò che alzarsi di default ed andare dal prossimo che storcerà il muso quando si troverà davanti un ex-detenuto. Il cane che si morde la coda insomma.
È un discorso complesso, scivoloso, rispetto al quale ci vuole poco a dire la cosa sbagliata. Resta il fatto che ci sono sacche negli Stati Uniti, sacche come Utica, in cui la povertà non è un concetto astratto bensì una realtà oggettiva, consolidata, che non riguarda alcuni bensì un’intera comunità. C’entra l’ignoranza? Forse. Ad uno degli intervistati viene chiesto che lavoro gli piacerebbe fare, posto che, s’è capito, da quelle parti non c’è nulla: «l’informatico», risponde lui. Bene. Senonché un istante dopo gli tocca ammettere che il diploma che prese quale perito informatico risale a un’epoca per cui oggi non saprebbe dove mettere mano.
Kowalski invita i suoi ospiti in questa ex-discoteca, in disuso, diroccata, un edificio fatiscente che sembra più in ritrovo per appassionati di crack, droga che, peraltro, in quell’area ne ha rovinati non pochi. Loro si siedono e parlano. È una campana, senz’altro rilevante, ma che non ci dice troppo, anche volutamente. Una ragazza con quattro figli a carico ritiene che arriverà un giorno, date le condizioni, in cui vi sarà una nuova guerra razziale. Ecco, questo è più interessante: in quel momento I Pay For Your Story entra prepotentemente nell’ambito di un’ambigua ancorché inquietante fantascienza, alla quale non si può fare a meno che ricondurre il contesto vagamente distopico che emerge nell’arco dell’intero documentario.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”6.5″ layout=”left”]
I Pay For Your Story (USA, 2015), di Lech Kowalski.