Il bambino con il pigiama a righe: la recensione
Il bambino con il pigiama a righe (The Boy in the Striped Pyjamas, USA, 2008) di Mark Herman. Con David Thewlis, Vera Farmiga, Asa Butterfield, Zac Mattoon O’Brien, Domonkos Németh, Henry Kingsmill. Germania, 1940. Bruno, un bambino di otto anni, è costretto a trasferirsi con la famiglia da Berlino ad una casa di campagna a
Il bambino con il pigiama a righe (The Boy in the Striped Pyjamas, USA, 2008) di Mark Herman. Con David Thewlis, Vera Farmiga, Asa Butterfield, Zac Mattoon O’Brien, Domonkos Németh, Henry Kingsmill.
Germania, 1940. Bruno, un bambino di otto anni, è costretto a trasferirsi con la famiglia da Berlino ad una casa di campagna a causa della promozione del padre, un ufficiale nazista. La casa di “campagna” è in realtà un’abitazione adiacente ad un campo di concentramento. La sua curiosità lo porta ad avvicinarsi a quella che crede una “fattoria” dove conosce un bambino “dal pigiama a righe” di nome Shmuel che sta all’interno della recinzione…
Difficile essere originali parlando dei campi di concentramento e della Shoah. Il film è tratto dal romanzo dello scrittore irlandese John Boyne, e ondeggia tra il racconto favolistico e il crudo realismo. Il bambino con il pigiama a righe è forse il racconto di una favola che non è potuta essere tale, di un’amicizia che non è stata vissuta.
Il produttore del film, David Heyman, ha sostenuto, citando Graham Greene, che “l’odio è il fallimento dell’immaginazione”, dandoci una buona chiave di lettura del film. Sia nella delicatezza della confezione (colonna sonora, fotografia) che nel punto di vista adottato (quello di Bruno, il bambino tedesco ignaro di ciò che gli adulti stanno compiendo), il regista sembra voler immergerci in una favola, ma si tratta di una favola che non riesce ad essere rappresentata
Bruno si trova di fronte a comportamenti e personaggi “strani” (come li definisce lui stesso) che non riesce a comprendere: il realismo delle situazioni e la crudezza delle vicende che gli accadono attorno tendono sempre a rompere l’incanto della favola che era pronto a vivere nella nuova casa di campagna. Suo malgrado si trova a vivere una situazione che va oltre la propria immaginazione, i giochi e le forme di rappresentazione che aveva sotto gli occhi.
Questo ci sembra ciò che lo sceneggiatore regista Mark Herman voglia suggerirci, ma lo fa in modo abbastanza convenzionale nella fase descrittiva di ambienti e personaggi tendendo a semplificare e a stilizzare i comportamenti degli adulti. Quando invece la favola diventa “horror”, la dove il film acquista inevitabilmente un pathos notevole, insiste fin troppo (utilizzando anche primi piani dei bambini) nel mostrarci ciò che non avremmo voluto che accadesse. E non basta chiudere un minuto prima la porta sull’inevitabile e l’irrapresentabile.
Voto Fabio: 6
Voto Gabriele: 7