Home Notizie Il cinema non solo italiano brucia in un nuovo “Inferno”

Il cinema non solo italiano brucia in un nuovo “Inferno”

Ho visto “Inferno” di Ron Howard, con il grande Tom Hanks, sono andato consapevole che mi sarei dannato come peccatore di amare il cinema, il “peccato” della speranza

pubblicato 17 Ottobre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 04:53

Sono andato a vedere l’amico Tom Hanks, un attore che stimo moltissimo e non ho certo bisogno di ricordare i motivi, in Inferno, stimando il regista Ron Howard che era più simpatico di Fonzie, infatti ha fatto una carriera di grandi successi più del collega del serial. Questa volta però Ron ha fatto flop e si è addormentato, pur nel casino che scatena di rumori e di effetti speciali, per scaldare inutili fiamme infernali, gelide come vecchie lastre di ghiaccio, o prodotte dai frigo, roba del nostro tempo.

Dico subito che se il cinema pensa di guadagnare terreno nello show business, di recuperare insistendo con questo tipo di kolossal bloccati in ritmi ripetitivi non andrà molto lontano. A Dan Brown il successo ha dato alla testa ma l’ebrezza che cerca di regalarci è ormai stomachevole. Il buon Ron tenta di evitare il ron ron con scenografie e scenari turistici carpiti velocemente e gettati negli occhi degli spettatori, schizzi irritanti.

La storia di attentati alla umanità escogitati da sinistre figure di sex diversi alle fine si sgonfiano come i palloncini retorici dei troppi James Bond; è solo la vera faccia del sistema di un certo cinema hollywoodiano che insiste sul ballo della mattonella infernale irta di chiodi da fachiro, noi non siamo fachiri. Viene voglia di dire a Tom: va beh, hai bisogno di soldi a forza di famiglie da mantenere, vacci piano.

Non sono un fazioso e quindi dico agli esercenti di andare a sbattere la faccia al muro e di continuare così, se a loro piace, o piace al loro pubblico, trascinato nel peccato del nulla: sono delle porte in faccia delle scene off limits di gusto, palloncini pallosi.

Dico questo perché, nei miei giri in Italia, scopro nella città, nelle periferie e nei paesi una tendenza che si sta rafforzando, e segna una volontà di alleanza che mi pare giusta e utile. Quella tra gli esercenti, che badano alla commerciabilità dei prodotti film a cui sono costretti dalle case di distribuzione; e gli appassionati gestori di sale, salette, cinemucci, nostalgiche salette d’essai. E’ un’alleanza o ricerca di alleanza che sta crescendo impetuosamente nelle regioni o province minori, nei pressi anche delle grande città dotate di multisale.

Questi esercenti e gestori dispongono di sale che devono essere riempite con criteri selettivi, cioè cercando di immaginare un rapporto fecondo tra spazi e avventori- spettatori. Con idee nuove sui costi del biglietto, abbassandoli, calibrando caratteristiche di pubblico e le loro aspettative. Pare che la cosa funzioni soprattutto nel nord o nel centro (Roma), meno nel sud, dove comunque qualcosa comincia a muoversi.

Tutto questo accade anche perché la produzione- tranne quella americana- tende ad aprirsi confusamente a una quantità di proposte e vogliosi giovani autori in cerca di un rapporto fra successo-pubblico di cui hanno bisogno assoluto se desiderano di uscire dagli spazi sperimentali o laterali o contradditori o confusi.

Non so come questa tendenza possa procedere. E’ un empirismo che aiuta tutti ad aggiornare schemi ormai superati: la pretenziosa sala d’antan e la minimalista sale d’essai-punto e basta. Se non va avanti questa strada, questa possibile intesa, l’inferno delle confusioni mentali e delle ambiziosi enfatiche- ripetitive porteranno alle bare di cinema, spero di no, ma sento rumori di martelli e sciocchezze da fuoco e fiamme obsolete.