Il Mio Nome è Khan: Recensione in Anteprima
Il Mio Nome è Khan (माय नेम इज़ ख़ान, My Name is Khan, India/USA 2010) di Karan Johar, con Shahrukh Khan, Kajol, Steffany Huckaby, Christopher B. Duncan, Douglas Tait, Carl Marino, Katie A. Keane, Jimmy Shergill e Big Spence.Inutile sorvolare su quale onore – e, al tempo stesso, onere – sia parlare di questo film.
Il Mio Nome è Khan (माय नेम इज़ ख़ान, My Name is Khan, India/USA 2010) di Karan Johar, con Shahrukh Khan, Kajol, Steffany Huckaby, Christopher B. Duncan, Douglas Tait, Carl Marino, Katie A. Keane, Jimmy Shergill e Big Spence.
Inutile sorvolare su quale onore – e, al tempo stesso, onere – sia parlare di questo film. Presentarvelo, raccontarvelo, fornirvi delle chiavi di lettura attraverso cui un attento spettatore può arricchire la propria mera visione. Dare modo a voi stessi di dare sfogo alle vostre doti interpretative che, se guidate dal buon senso e “qualcosina di più”, potranno darvi modo di apprezzare uno dei film più interessanti di questa annata – e non solo, probabilmente.
Il Mio Nome è Khan, a ben vedere, non aspira ad alcuna perfezione. Non si prodiga in ricercate soluzioni stilistiche, né intende farsi portavoce di qualche nuovo genere. Tutt’al più intende raccontarci qualcosa, fornirci qualche ragionevole spunto su temi ai quali non sempre ci si può e ci si deve sottrarre. L’ultima volta che ne parlammo, mettemmo in guardia dal pericolo di sfociare in sentimentalismi e buonismi di sorta – mali di cui la nostra società sembra essere affetta in maniera piuttosto profonda.
Questa pellicola, però, pur con tutti i suoi limiti – a nostro parere imputabili solo all’entità degli argomenti trattati, più che alle capacità di chi vi ha dato vita – ci riporta un attimino coi piedi per terra. E lo fa sbattendoci in faccia una realtà di cui poco o nulla si tratta in quel magico castello, attorniato da un tripudio di coloratissime composizioni floreali, in cui buona parte di noi dimora senza nemmeno riconoscerne il perché. Insomma, apprestiamoci ad intraprendere questo piccolo viaggio col giusto piglio. Pronti, via… non c’è da pentirsene…
Rizwan Khan è un ragazzino indiano, di fede mussulmana, che soffre di sindrome di Asperger, da molti considerata una forma di autismo, seppur lieve. Vive in casa con la madre ed il fratello Zakir, il quale non riesce proprio a sopprimere un malcelato rancore verso il proprio fratello, a causa del rapporto instauratosi tra quest’ultimo e la madre. Ed è proprio questa relazione materna a ricoprire un ruolo fondamentale ai fini dell’economia dell’intera narrazione. L’amore della madre per il proprio figlio si manifesta attraverso un’educazione impartita senza posa, con la dolcezza e la comprensione di cui solo una mamma probabilmente può farsi portavoce.
D’altra parte non è facile per il piccolo Khan crescere in mezzo ai suoi coetanei, per via di una condizione che gli preclude qualsivoglia possibilità d’integrazione. Vuoi per questo, vuoi per una miriade di altri motivi, sin da piccolo riesce a dimostrarsi molto ricettivo nei confronti degli insegnamenti della madre. Trattasi in parte di una dote innata di Khan – quella di assimilare informazioni con una facilità disarmante – ma in questo caso si parla di parole che non fissa nella sua oltremodo capace mente, bensì nel proprio cuore.
Sono quelle brevi e amorevoli frasi con cui è stato cresciuto, le quali rimbombano costantemente nella sua testa, quasi che il riverbero attraverso la sua Anima toccasse dei canali sensibili ai nostri mortali sensi. “Al mondo esistono persone buone e persone cattive, questa è l’unica differenza. E chi commette buone azioni è una persona buona, mentre chi commette azioni cattive è una persona cattiva“. Un monito così semplice e apparentemente ingenuo da far dubitare della sua potenza, se Qualcuno non avesse a sua volta esclamato parecchio tempo prima “Dai frutti li riconoscerete!“.
Ed è qui che emerge la prima chiave di lettura, ossia quella fortemente religiosa. Sappiamo quanto oggi si sia impermeabili a certi messaggi, e quanto prurito riescano a generare opere che emanino anche solo un vago sentore che possa collocarle in questa cerchia. Ma che piaccia o meno, Il Mio Nome è Khan tocca anche quelle corde, impostando su di essa, a nostro modo di vedere, l’intero dipanarsi delle vicende – così come un contenitore adegua qualsiasi liquido alla propria forma, una volta contenuto.
Ma su tale punto ci torneremo più avanti, visto che non solo questo è il tema toccato dal film. Anzi, apparentemente il film sembrerebbe ruotare attorno ad un’altra vicenda, ossia quella, infame, dell’11 Settembre. Esatto, quel giorno che, in una misura che ancora non riusciamo a realizzare, ha cambiato la nostra storia in maniera irrevocabile. E badate bene, perché i termini non sono utilizzati a caso. Non fate l’errore di mutare la parola ‘irrevocabile‘ in ‘irrimediabile‘, perché diversamente fareste il gioco dei “soliti noti”. Nossignore, qui si parla di una svolta da cui non si può tornare indietro, ma che senza dubbio potrebbe volgere in maniera positiva. Certo, non adesso magari, anche perché, a ben vedere, ci sarebbe più da essere pessimisti che ottimisti.
Fatto sta che gli eventi stessi del film cercano di “portarci fuori strada”, come quando il protagonista ci dice esplicitamente che da quel nefasto giorno, le cose sono cambiate davvero: “Fino ad ora l’Occidente ha diviso la storia in ‘avanti Cristo’ e ‘dopo Cristo’. Ora c’è un prima e un dopo 11 Settembre“. E’ un Khan oramai cresciuto quello che parla, che ha seguito il fratello a San Francisco dopo la dolorosa morte della madre. Da quel momento in avanti Khan è solo, e nel più radicale dei modi. Non ha un’esatta percezione di questo suo nuovo stato – questo sì, irrimediabile – che però affronta con la più commovente delle reazioni, cioè assecondando il desiderio della defunta madre circa lo stabilirsi negli USA.
Ed allora vola Khan, vola lasciando il proprio nido verso un mondo troppo grande per essere anche solo superficialmente quantificato. Ma a lui questo non interessa, perché la madre – sempre sulla falsa riga di ciò che abbiamo rilevato poco sopra in merito al carattere religioso dell’opera – ha insegnato al figlio a dare peso a ciò che davvero ha importanza, sulla scorta del consiglio “vagliate tutto, trattenete solo ciò che è utile!“.
Ma la vera svolta non è questo passaggio, per quanto importante, bensì l’incontro con una donna, Mandira. Difficile comprendere cosa passi per la testa a Khan dopo aver visto per la prima volta questa bellissima ragazza, né da quali sensazioni sia attraversato allorquando sbircia con fare disinvolto e smaliziato dalla vetrina del salone di bellezza presso il quale il suo nuovo angelo lavora. Ma qualunque cosa sia, senza indugiare in ulteriori investigazioni, ci piace pensare che profumi di sublime.
Attraverso un processo di cui non abbiamo alcuna intenzione di discutere, Khan e la bella Mandira convolano a nozze. Tutto procede meravigliosamente, con i tre componenti della nuova famiglia (sì, perché Mandira viene da un altro matrimonio da cui è nato un figlio) che trovano, ognuno a proprio modo, la loro armoniosa dimensione. Questo fino a quel fatidico giorno, uno di quelli che andrebbero cancellati dalle pagine del calendario se solo avesse una qualche utilità: l’11 Settembre 2001.
Da allora, qualcosa si smonta, con una famiglia il cui amore, per quanto grande, non può rimanere al riparo da un’influenza esterna così imponente. Da quel momento in avanti, essere mussulmani diventa un crimine, rappresentando un’onta difficile da lavare. Ciò che le varie sequenze cercano di farci capire, ed in maniera assolutamente ragionevole perché obiettiva, è che le vittime di quel tragico attentato non furono solo i morti nelle Torri Gemelle ed i loro familiari, bensì tutto un altro stuolo di persone appartenenti ad una determinata cultura e Fede, ossia quella che si rifà all’Islam.
Non c’è vittimismo, solo constatazione. Associare il termine ‘mussulmano’ a ‘terrorista’ da allora è divenuta una prassi, velata o meno che sia. Chi tra di loro non morì per mano di quelli invasati che dirottarono quegli aerei, ha smesso comunque di vivere da quel giorno, tutt’al più sopravvivendo. Sia chiaro: non saremo certo noi a sfociare in denunce intrise di pseudo-solidarietà e pseudo-umanitarismo, Dio ce ne scampi!
Quei sentimenti annacquati sono proprio ciò che vogliamo evitare, perché il dramma umano non è mai di due colori, o tutto bianco o tutto nero. Ed è bello vedere come nel film si siano mescolate svariate tonalità, laddove, per esempio, riesce a non prendersi troppo sul serio – quasi fosse un’inchiesta – mostrandoci la goffa e al tempo stesso comica innocenza di Khan. Ed è sintomatico che oggigiorno, per raccontare una storia simile, ci sia bisogno di ricorrere ad un personaggio di questo tipo, esponendolo alle più strambe delle posizioni di aprioristica “pietà” – nel duplice senso che sono queste stesse posizioni a far pena.
Khan, come tanti altri uguali a lui, non ha alcuna colpa per ciò che è accaduto. Tuttavia, pur vedendo scivolare una vita che faticosamente lo aveva realizzato, non se la prende mai con nessuno, specie con chi punta il dito verso di lui. Non prova odio Khan, forse perché nemmeno lo conosce. La mamma gli ha insegnato a “trattenere ciò che è utile”, e sa che quella strada lì non conduce da nessuna parte. Sa di non essere ciò che gli altri gli rinfacciano astiosamente di essere (assumendo su di sé una colpa considerata collettiva), eppure basta un cenno, uno sguardo, una “scossa” per mettere in moto un percorso che ha dell’incredibile, ai limiti dell’assurdo.
Tra fame, freddo e miseria, parte allora alla ricerca del Presidente degli Stati Uniti, per gridare a lui e al mondo intero: “Il mio nome è Khan e non sono un terrorista!“. Quanta ingenuità mista a follia ci vuole per compiere un’impresa del genere?
Non importa, perché il nostro protagonista avverte tutto ciò come un debito a cui lui stesso è tenuto ad ottemperare. Una missione da compiere, quasi che attraverso tale compimento passi la “redenzione” di un’intera cultura.
Ma proprio per rendere giustizia a quella sorta di obiettività cui accennavamo sopra, la sceneggiatura non prevede un continuo piangersi addosso da parte delle “vittime” proposte. E’ proprio Khan, ad un certo punto del film, ad entrare in una Moschea per pregare, salvo venire a contatto con un gruppo di facinorosi. Nell’atto di quella che ci viene proposta come una mistificazione del “messaggio divino”, alcuni esponenti di quella Moschea intendono preparare un ulteriore attentato. Ebbene, dopo aver espresso in maniera scandalosamente lucida il perché si trovino in errore, è Khan a denunciarli all’FBI.
Non è un caso se durante il film ricorre una frase, tratta proprio dal Corano. Trattasi della Sura numero 5, verso 32.
Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo, che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità. I Nostri Messaggeri sono venuti a loro con le prove! Eppure molti di loro commisero eccessi sulla terra.
Quanti di noi lo conoscevano? Noi che nella nostra tenera idiozia ci limitiamo alle presunte settantacinque vergini, bellissime ovviamente, che aspetterebbero certi folli dopo l’insano gesto. Mostrando anche una certa incoerenza, noi che anche per una sola (per di più non vergine) siamo stati capaci di fare molto di peggio!
Insomma, trattasi di una prova davvero encomiabile da parte di Shahrukh Khan, che ha affrontato questa enorme sfida nel modo più opportuno, a nostro modo di vedere. Non solo l’interpretazione, ma anche l’atmosfera in grado di generare con essa meritano un plauso. Con quella azzeccata voce fuori campo che ci accompagna per tutto il film, e alla quale è difficile restare indifferenti specie quando si assiste ad uscite del tipo: “Sono arrabbiati con me perché non so nulla su Al-Qaeda. L’avrei dovuto cercare su Google, Mandira!“.
Perché, a conti fatti, l’intera pellicola è tutta una messa in scena di una lunga, commovente ed adorabile dichiarazione d’amore verso la propria donna amata. Il tutto, travestito da narrazione degli eventi, cosicché a noi resti quantomeno una cronaca con relativo commento.
Ecco, è chiaro che la Salvezza del genere umano non passi da Khan, ma è bello credere che possa avvenire mediante l’intervento di un Dio che davvero sta “dalla parte dei buoni”, pur tuttavia cercando di portare disperatamente a sé anche i “cattivi”. E che i primi siano tali perché, essenzialmente, “dicono sempre la verità”, a differenza dei secondi, inclini soltanto alla menzogna. E’ insegnamento di un mussulmano quello secondo cui, oggi come oggi, Dio cerchi qualsiasi scusa per salvare ognuno di noi – il che, se così fosse, dovrebbe essere eternamente vero, e non solo “oggi”.
E tra chi pensa di essere salvo, chi di non esserlo, o chi semplicemente di non averne bisogno, non si può certo fare a meno di rilevare come lo spirito di Khan sia quello giusto: mite, deciso e mai rassegnato. Un atteggiamento che noi, sedicenti cattolici, spesso e volentieri dimostriamo di non conoscere, perché troppo “sani” e troppo “normali”. Eppure, ragionandoci un po’, non ci sembra sia necessario soffrire di qualche sindrome in particolare per farsene portavoci… oppure sì?
Si capisce bene, quindi, quanto faccia amaramente sorridere che il vero cristiano risulti uno che nemmeno ci crede nel Cristo, senza contare la sindrome da cui è affetto – è il colmo insomma, materiale per qualche futura barzelletta da intrattenimento becero, da prendere a modello come quelle del tipo “ci sono un inglese, un francese e un italiano…“. Fuggendo ogni tipo di sincretismo o ecumenismo, quindi, lasciamo qualsivoglia deriva relativistica ad altri, ben più intelligenti di noi. Perché a confidare in un dio capace di siffatto amore, pur da miscredenti, alle volte si sarebbe davvero tentati!
Il film approderà nelle sale venerdì 26 Novembre. Eccovi il trailer ufficiale italiano.
Voto Antonio: 8,5
Voto Carla: 4,5