Il primo re, recensione: la leggenda che precede la fondazione di Roma, affascinante da vedere, meno da seguire
Per quanto ci s’impegni, è difficile staccarsi dal contesto entro il quale matura un film come Il primo re, diviso tra l’unicum che è quanto a sforzo produttivo in Italia ed i limiti altrettanto palesi del suo racconto
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Il Tevere straripa e due fratelli, Romolo e Remo, restano travolti da quest’onda anomala alla quale è impossibile sottrarsi. Le prime sequenze de Il primo re rappresentano un’introduzione un po’ incerta, goffa, quantunque rendano l’idea rispetto alle ambizioni, le premesse e persino il risultato. Matteo Rovere punta a un altro linguaggio, uno di quelli che dalle nostre parti non è pressoché bazzicato da nessuno, forse da Stefano Sollima, il quale, non per nulla, ha trovato la propria strada verso gli USA. Qualcosa s’intravide già in Veloce come il vento: quel taglio atipico per produzioni italiane, che guarda altrove, suggerendo che esistono altri modi di raccontare (incredibile ma vero).
Eppure già in quella prima parte, Remo e Romolo sballottati dalla corrente, mentre urtano con violenza, si tagliano, restano impigliati ed altro ancora, denota quanto non si sia ancora all’altezza di ambizioni che vanno altresì coltivate. C’è infatti un che di comico, assolutamente involontario, non solo nell’azione in sé bensì rispetto alla durata: dopo cinque frenetici minuti di quel tipo sembra di assistere a uno slapstick che sembra più un flipper, quasi fosse un film dei Coen, meno la consapevolezza del regista a due teste. Dopodiché Il primo re parte davvero e si capisce che qualcos’altro da dire ce l’ha, il film, nel prosieguo, si farà.
Si farà, certo, ma non senza intoppi, compromessi, momenti di stanca dovuti essenzialmente a una scrittura che non regge il confronto con le lodevoli intenzioni. Vale comunque la pena provare? La risposta è un gigantesco sì; sì perché, senza star lì a cogliere la palla al balzo al fine di affossare ulteriormente certa produzione nostrana, non si può disconoscere, evidenziandolo a dovere, quanto progetti del genere rappresentino un unicum da incoraggiare a priori. Non risolveranno tutti i problemi del nostro cinema film come questo, forse non ne risolveranno nemmeno abbastanza, ma l’idea alla base, il messaggio che, coscientemente o meno, portano in dote è che cose di questo tipo dalle nostre parti si possono e si devono fare.
Ma torniamo al film, entrando nel merito di ciò che non funziona. Va infatti detto che la sfida con la quale si cimenta Rovere è dall’alto coefficiente di difficoltà, non solo in relazione a cosiddetti meriti artistici e/o produttivi, bensì anche e soprattutto rispetto a un pubblico che poche volte negli ultimi dieci anni almeno viene messo così tanto alla prova. Dinanzi alla maggior parte dei film italiani che arrivano in sala, infatti, è tutto sommato semplice farsi un’idea a priori, quantomeno rispetto al tipo di lavoro che si sta per guardare. Il primo re non è un film d’azione, non uno d’avventura, non un film drammatico ma nemmeno uno tout court storico: è un po’ tutte queste cose messe insieme, il che già così complica le cose rispetto al grande pubblico.
Dove però la posta in gioco è più alta, dunque la scommessa si fa ancora più rischiosa, è in un approccio non convenzionale (sempre restando al nostro Paese, s’intende). Anzitutto la scelta del Latino antico, la lingua che parlavano i popoli latini, appunto, prima della fondazione di Roma: ci vuole coraggio a fare qualcosa del genere senza nemmeno chiamarti Mel Gibson. In secondo luogo il ritmo, che mescola misure tipiche da mainstream consumato a scelte un pelo più arty, da cui una tenuta incostante, alla quale non contribuisce certo la durata. Anche a livello tematico le aspirazioni sono alte; Il primo re non ha pressoché alcuna mira vertente al realismo, senza al contempo volersi discostare più di tanto da un tono di verosimiglianza, per cui zero fantasy ma, in linea con la cultura del tempo, si lascia attraversare da una nota di soprannaturale della quale una storia del genere, intrisa di mitologia, effettivamente non può fare a meno. Il tutto condito con quel pizzico di gore, qualche passaggio più cruento, forte, del tutto in linea con ambienti ben più blasonati di quello entro il quale nasce e matura questo progetto.
Capite bene che l’entità dello sforzo sia notevole, il tentativo quello di tirare fuori qualcosa che si discosti dai canoni nostri per abbracciarne tuttavia degli altri. Non abbastanza spinto per collocarsi, anche solo concettualmente, sullo stesso piano di un Valhalla Rising, ma nemmeno così smaccatamente ammiccante da dover coinvolgere per forza una significativa fetta di pubblico. Tutto ciò, manco a dirlo, dovendo ragionare a priori, dato che un pronostico in tal senso, ché di questo si tratterebbe, è oltremodo difficile. Anzi, Il primo re, per certi versi pure suo malgrado, costituisce una di quelle tappe importanti per tastare il polso del pubblico, capire almeno per sommi capi a che punto sia, se davvero la soglia di accettazione e attenzione abbia fatto registrare una qualche variazione.
Matteo Rovere nel frattempo sembra già essersi inoltrato per un sentiero specifico, lungo il quale con ogni probabilità intende formarsi alla scuola di un linguaggio ampiamente sdoganato, senza voler stravolgere alcunché, senza alcuna mira particolare se non quella di raccontare mediante modalità familiari, forse le più familiari. A tal proposito, limitatamente a questa sua ultima fatica, emerge ancora una certa difficoltà ad incanalare questa sua ambizione, che da un lato rifiuta alcuna velleità autoriale, al tempo stesso però osando, prendendosi qualche rischio che però purtroppo alla fine non paga. La speranza, almeno per chi scrive, era che dopo il film precedente, con questo Il primo re il nostro avrebbe avuto modo di emanciparsi, anche solo manifestando qualche piccolo segno in questa direzione. Fare il salto insomma, a questo punto rinviato semmai al prossimo tentativo.
Peccato davvero, poi, che, a fronte di un soggetto così accattivante, il suo sviluppo lasci così tiepidi. La storia/leggenda dei fondatori di Roma Eterna ha in sé un fascino innegabile, il cui racconto così frastagliato, strutturalmente difettoso, finisce con il ridimensionare il tutto più del dovuto. L’esito è che i reali meriti de Il primo re vengano quasi in toto relegati alla cosiddetta production value (dato il contesto mi pare appropriata la dicitura), su cui davvero c’è poco da dire: su questo fronte il film di Rovere si pone quale punto d’approdo per il nostro cinema, territorio in cui nessun altro ha ancora messo piede.
Qualcuno senza dubbio sarebbe peraltro tentato di affermare che Il primo re abbia un respiro internazionale, il che non è certo falso ma nemmeno del tutto vero. Così per com’è, a livello puramente linguistico, non ci si limita a piluccare o ispirarsi, bensì servirsi di strumenti ed escamotage di racconto sin troppo riconoscibili, ai quali Rovere aggiunge in buona sostanza alcunché. Niente di male qualora si trattasse di una fase, un periodo di latenza in ottica di altro, ovvero l’appropriazione di un linguaggio che tenda a prendere almeno un po’ le distanze da certe regole, fin qui osservate con anche fin troppo scrupolo – non ci si lasci infatti fuorviare, in tal senso, da quanto evidenziato in merito all’andamento del film, dato che il rischio viene abbracciato a metà, e si vede, ma soprattutto si sente.
Un’ultima considerazione mi pare opportuno rivolgerla nei riguardi di Alessandro Borghi, un attore che sta crescendo, e che, pure calato in ruoli di questo tipo, ne esce bene nel peggiore dei casi. È lui un’altra delle note positive, ulteriore conferma che sì, il gap con altre cinematografie lo dobbiamo avere davanti sempre, ma non per ripeterci che siamo mediocri, dato che un altro modo di fare e di produrre, al netto di tutte le difficoltà e gli ostacoli, è non solo possibile ma alla portata. Ecco perché il miglior complimento, per così dire, che si può fare a questo film è di trattarlo come tale ed evidenziarne anzitutto i limiti, metterne in chiaro i difetti, che peraltro non sono affatto marginali. Eppure si tratta già un risultato, dato che con buona parte di ciò che sforniamo tante volte presupposti ai fini di un approccio del genere proprio non ci sono.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”6″ layout=”left”]
Il primo re (Italia, 2019) di Matteo Rovere. Con Alessandro Borghi, Alessio Lapice, Fabrizio Rongione, Massimiliano Rossi, Tania Garribba, Michael Schermi, Max Malatesta, Vincenzo Pirrotta, Vincenzo Crea, Lorenzo Gleijeses, Gabriel Montesi, Antonio Orlando, Florenzo Mattu, Martinus Tocchi e Ludovico Succio. Nelle nostre sale da giovedì 31 gennaio 2019.