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Il racconto d’inverno: recensione dell’opera teatrale diretta da Kenneth Branagh

Prima tappa che inaugura la nuova iniziativa di Nexo Digital, ossia portare in sala tre opera della compagnia di Kenneth Branagh. Si comincia da Il racconto d’inverno, con una Judi Dench ammaliante

pubblicato 17 Ottobre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 04:53

Leonte, Re di Sicilia, e Polissene, Re di Boemia, sono grandi amici. Alla vigilia della partenza di quest’ultimo, Leonte e la moglie Ermione cercano in tutti i modi di trattenere l’amato ospite, che però non vuole sentire ragioni. Dove non può l’amicizia del Re può senz’altro l’affabile amabilità della Regina, che con parole dolci e sguardi teneri convince Polissene a rinviare il giorno della partenza. Tutto ciò non sfugge a Leonte, che in quei modi, quegli sguardi e quelle attestazioni di affetto tra la moglie ed il nobile amico scorge qualcosa di più del semplice rispetto. La gelosia prende il sopravvento, perciò, mettendo in moto una catena d’eventi spiacevoli per tutte le parti.

Il racconto d’inverno rappresenta l’ennesimo tentativo di portare il Teatro al Cinema, estendendo a più persone possibile l’esperienza, di per sé unica e non replicabile, di un’opera teatrale. Ancora una volta è Nexo Digital a farsi promotore dell’iniziativa, che stavolta coinvolge la Kenneth Branagh Theatre Company, qui chiamata a mettere in scena la tragicommedia del bardo di Stratford sull’Avon. Una commedia romantica oppure una tragedia a lieto fine, svariate sono state le definizioni date a quest’opera, che risale al 1611. Branagh, da conclamato shakespeariano (quale attore inglese non lo è?), cerca di far fondo alla pienezza dell’opera, alla quale integra la capacità degli attori e qualche interessante scenografia; tuttavia, manco a dirlo, è il testo a farla da padrone. È sempre possibile redimersi? Esistono peccati e/o errori ai quali è possibile rimediare anche quando non vi è alcun apparente rimedio? Con l’incisività tipica delle opere di Shakespeare, quest’opera ci pone di fronte ai limiti di ciò che siamo in grado di dire circa alcune delle più nobili così come le più spregevoli peculiarità dell’animo umano. Limiti sui quali non si ragiona dandosi alle parole del poeta, che aggira tale inadeguatezza, molto umana, attraverso l’azione e l’intreccio.

Come già altre volte è capitato di evidenziare in occasioni analoghe, esperimenti di questo tipo, che tali rimangono a dispetto della loro “anzianità”, si collocano in un punto d’intersezione tra le due arti, qualcosa che ben prima di Nexo Digital si vedeva già in televisione (memorabili gli adattamenti della BBC a cavallo tra gli anni ’70 e ’80). Questo induce a cautela chi intende accostarsi ad una disamina, per quanto sommaria qual è quella di una recensione: quali strumenti adottare perciò? Non quelli della critica ostinatamente cinematografica, se non in quelle componenti che convergono col Teatro, in primis la recitazione. Anche qui però, non tutto è così semplice: sebbene questa versione di Branagh non indulga nella declamazione del testo, è nondimeno presente e volutamente ricercata un’impronta che faccia della lingua una musica. Ecco, questo non si vede spesso al cinema, per lo meno non di recente, ovvero film che abbiano il coraggio di esaltare la lingua e farne uno strumento essenziale.

Solo solo per questo prodotti di questo tipo risultano necessari, quasi a fare da contraltare al rumoroso cicaleccio di tanti film a loro modo impegnati così come al confusionario tappeto sonoro di certi prodotti ad alto budget (e conseguente alto mal di testa). Ritrovare la profondità e la grandezza della lingua, quell’inglese che certamente nessuno parla oramai, forse nemmeno nell’intonazione o inflessione che sia. Dandosi alle riprese di opere come Il racconto d’inverno ci si rende conto di quanto l’eccesso di zelo verso le immagini, anche in un contesto principalmente visivo come il Cinema, stia rischiando di farci perdere il contatto con la vocazione sinestetica di questo medium. Non soltanto da un punto di vista puramente sensazionale, “dei sensi” per così dire, quella componente che solletica per lo più la parte incosciente, ma pure quella più consapevole della parola, tanto spesso negletta.

Certo, alcuni (pochi? molti?) possono pure storcere il naso dinanzi ad una trasposizione in fin dei conti così tradizionale, presi come siamo oggi dall’idea, erronea, che innovazione faccia sempre e comunque rima con miglioramento. Ma Il racconto d’inverso di Branagh va visto così; con le sue performance notevoli, che ci consentono vedere certi attori sotto vesti alle quali non siamo abituati ma che pure sono loro congeniali (bravo Branagh, ancora più brava lady Dench); con quel cambio di registro che al cinema è difficile proporre se non sotto forma di film d’autore, per cui è celebre il teatro elisabettiano, così attento ad interagire nei modi più disparati con il pubblico, che nel giro di poche ore può sperimentare a varie intensità tutto, l’odio, l’indignazione, la paura, così come il divertimento, l’amore, la leggerezza. Qualità che, non senza meraviglia, ritroviamo a distanza di quasi cinquecento anni, in maniera diversa ma altresì potente.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

Il racconto d’inverno (Kenneth Branagh Theatre Company – The Winter’s Tale, Regno Unito, 2016) di Rob Ashford, Kenneth Branagh. Con Judi Dench, Tom Bateman, Jessie Buckley, Hadley Fraser, Miranda Raison e Kenneth Branagh. Nelle nostre sale solo martedì 18 e mercoledì 19 ottobre 2016.