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Il tempo che ci rimane – di Elia Suleiman: la recensione

Il tempo che ci rimane (The Time That Remains, Gran Bretagna / Italia / Belgio / Francia, 2009) di Elia Suleiman; con Ali Suliman, Elia Suleiman, Saleh Bakri, Amer Hlehel, Menashe Noy, Nati Ravitz, Avi Kleinberger, Lotuf Neusser, Ehab Assal, Doraid Liddawi.Quattro episodi, dal 1948 ad oggi, per raccontare, più che un’autobiografia, una serie di

pubblicato 5 Giugno 2010 aggiornato 2 Agosto 2020 00:06

Il tempo che ci rimane (The Time That Remains, Gran Bretagna / Italia / Belgio / Francia, 2009) di Elia Suleiman; con Ali Suliman, Elia Suleiman, Saleh Bakri, Amer Hlehel, Menashe Noy, Nati Ravitz, Avi Kleinberger, Lotuf Neusser, Ehab Assal, Doraid Liddawi.

Quattro episodi, dal 1948 ad oggi, per raccontare, più che un’autobiografia, una serie di ricordi quotidiani, di situazioni e momenti rimasti nella memoria del regista palestinese Elia Suleiman. E proprio dal 1948, data in cui viene fondata Israele, la storia della famiglia del regista va di pari passo con quella di un popolo senza più una terra…

È curioso che nello stesso giorno escano in Italia due film importanti che raccontano, in modi diversi, la storia (buia) di due paesi. Se da una parte, con uno stile classico ed emotivamente coinvolgente, Juan Josè Campanella ne Il segreto dei suoi occhi ci racconta del periodo subito precedente alla dittatura argentina con una storia d’amore virata in nero, Suleiman ci narra di un popolo che viene privato delle proprie radici con uno stile che guarda al surrealismo.

I due film ci ricordano ancora una volta che il cinema è principalmente una questione di come si narra una storia: una questione di stile, direbbe qualcuno. E se l’avvincente Campanella riesce ad essere lucido e claustrofobico per quel che riguarda la situazione politica degli anni ’70 in Argentina senza mai affrontare di petto il problema, ma facendo strisciare sottopelle il senso di dittatura nascente, Suleiman costruisce il suo film con un ordine geometrico che ci narra direttamente anche delle guerriglie tra palestinesi ed israeliani.

Proprio come se fossero dei ricordi che hanno bisogno di essere riordinati, il regista palestinese dirige questo bellissimo Il tempo che ci rimane con una sapienza geometrica ed una struttura dell’inquadratura che, per rigore, ricorda il contemporaneo Lourdes di Jessica Hausner. Come per la regista austriaca, l’attenzione meticolosa di Suleiman per il profilmico è una scelta ragionata ed intelligente, capace di creare momenti davvero convincenti grazie all’ordine stesso dell’inquadratura.

Ritorna in ballo il nome di Jacques Tati proprio come in Lourdes, a conferma che in entrambi i film, che trattano due temi potenti, difficili e complessi come la situazione israeliano-palestinese e la fede, anche l’ironia può essere un’arma vincente per ragionare su di essi. E le gag in Il tempo che ci rimane ci raccontano di vicende e personaggi quotidiani, della storia dei nonni e dei genitori del regista, passando per i vicini di casa durante gli anni ’70 ed ’80.

Quello di Elia Suleiman è il ritratto di un popolo che in un modo e nell’altro continua a resistere. Due le scene significative, e non a caso la prima è una gag: di fronte ad una casa c’è un enorme carro armato; un ragazzo esce per buttare la spazzatura; il cannone lo segue in tutti i suoi minimi spostamenti; il ragazzo fa finta di nulla, e risponde come se niente fosse al cellulare. Come dire: un popolo che ormai convive con l’orrore, ma che va avanti con la propria quotidianità.

Un’altro momento che fa pensare è quello dei fuochi d’artificio: la madre del protagonista non li guarda, ed anzi volge lo sguardo esattamente dalla parte opposta. Se da una parte ricorda il marito defunto da anni che si sedeva volentieri nello stesso identico posto dov’è seduta lei (decisamente toccante il momento successivo all’ospedale, in cui la donna tiene costantemente in mano la sua foto), dall’altra il suo gesto sembra voler ribadire che non c’è proprio nulla per cui festeggiare con scoppi e colori…

La forza del film sta proprio qui, nel saper coinvolgere lo spettatore con una storia privata e con altri personaggi di contorno costruiti con pungente umorismo, e nel portarlo attraverso la Storia con rigore e lucidità di sguardo. Aggiungiamoci qualche punta dichiaratamente surrealista, come nel momento in cui il regista salta con l’asta il muro di Gaza, ed ecco che abbiamo un esempio lampante di come il cinema, spesso e volentieri, sia capace di leggere la realtà, e di ricordarci che non sempre per manifestare la propria rabbia verso la Storia ci voglia un capo d’accusa.

Voto Gabriele: 8

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