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Cannes 2019, It Must Be Heaven, recensione: l’assurdo di Suleiman lontano dalla Palestina

Festival di Cannes 2019: è la solita, garbata, quasi sempre puntuale comicità di Elia Suleiman, che torna dietro la macchina da presa a dieci anni esatti da Il tempo che ci rimane

pubblicato 24 Maggio 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 19:08

Elia Suleiman si affaccia dal balcone di casa che dà sul giardino, in Palestina, e si rende conto che uno dei suoi vicini gli sta rubando i limoni. Ma non è un ladro, perché lo stesso vicino torna più volte, ora per potare l’albero, ora per curarlo così che ne crescano degli altri, di limoni. Nella sua Nazareth accadono cose strane, nei ristoranti così come in giro, ma pure appena uscito dal portone, con gente che gli racconta storie assurde. È assurdo, manco a dirlo, e anche questo suo ultimo lavoro, ambientato non solo nella sua amata terra bensì pure a Parigi e New York.

Il marchio di fabbrica di Suleiman c’è sempre, non importa cosa stia raccontando. Quella sua comicità agrodolce eppure calorosa, quella sua espressione attraverso cui cerca di non tradire possibilmente alcun sentimento specifico. Non è possibile immaginare il regista palestinese altrove, nel senso che il suo cinema non può che maturare lì, in quell’area specifica del Medioriente, dove un popolo, a torto o ragione, si sente vittima di un’ingiustizia, che, tra le altre cose, impedisce loro di costituirsi come Paese. Proprio sul finire, in quel della Grande Mela, Suleiman, ancora una volta protagonista come si è capito, consulta un cartomante, al quale chiede se la Palestina ci sarà o meno. La risposta è sì, ma lui non vivrà abbastanza per vederlo.

In tale consapevolezza c’è la premessa al suo cinema, fatto d’inquadrature fisse all’interno delle quali fa accadere cose, alternate quasi sempre da un suo primo piano mentre sta osservando. La geometria della composizione, le esilaranti coreografie, sono tutte misure che consento a Suleiman di scippare un sorriso, laddove non addirittura una risata, mentre sta cercando di dirci altro, mai prendendo di petto, bensì col tatto e la delicatezza di chi entra in un’aula a lezione iniziata e docilmente va a sedersi all’ultimo banco come se niente fosse.

Al cineasta di Nazareth non interessa disturbare insomma, fare polemica, eppure non può nemmeno tacere del tutto lo stato in cui si agita. Per capire i suoi film vanno osservate le sue movenze cadenzate, il non proferire mai una parola, quell’aria beffarda sul volto, di chi ha capito tanto ma non vuole dare a vederlo. In It Must Be Heaven il nostro si reca in Francia per proporre una sua sceneggiatura ad una casa di produzione, il cui responsabile si prende alcuni minuti buoni per spiegare che sì, certi progetti sono esattamente ciò che fa al caso loro, ma che alla fine non gli interessa. Suleiman resta interdetto, e c’è forse lo scarto culturale di chi tenta di vedere l’Occidente da fuori.

Due le scene a Parigi, per esempio. La prima riprende questi poliziotti che girano in tondo sui loro monocicli, muovendosi a tempo, così come altri, che attraversano una piazza tagliandola diagonalmente e suscitando le risa spontanee. Perché, vedete, la comicità su cui fa leva Suleiman è molto plastica, decisamente visuale; non di battute brillanti ma di situazioni inverosimili, bizzarre eppure divertenti. Non dico che ci riesca sempre, sistematicamente, ma il più delle volte sì, e sono scene semplici, che proprio per questa loro semplicità colpiscono. Come quel passerotto che gli entra in camera, si mette ai bordi del tavolo su cui Elia sta lavorando, prende la rincorsa e si mette sopra la tastiera, col regista/attore che di volta in volta l’allontana.

C’è quasi una grazia nell’approccio di Suleiman alle scene che costruisce, non tanto alle storie, che vivono di riflesso. In questo caso la storia è quella esposta schematicamente sopra: lui che lascia la Palestina per volare prima in Europa, poi negli USA, al fine di farsi finanziare l’ennesimo film sulla pace in Medioriente. Una produttrice, prima congedarlo quasi con indifferenza, a sentire di che si tratta risponde: «la pace in Medioriente? Fa già ridere così». Ed anche qui c’è da cogliere qualcosa. Suleiman infatti non allude al conflitto: di quello ne hanno già avuto abbastanza. Tra un momento leggero e l’altro, infatti, è vero che quei silenzi permettono d’intravedere anche la sofferenza per uno status quo che comunque non smette di pungere, dopo aver tormentato per chissà quanto tempo. Proprio per questo i film che vanno girati in merito alla questione devono riguardare la pace e nient’altro.

I suoi somigliano quasi a dei cartoni animati in live action, con una propensione politica sempre spiccata, tema centrale dei suoi film, missione che questo regista si è dato. Quando un tassista newyorkese gli chiede da dove viene, lui risponde «Nazareth», al che il tassista replica: «ma Nazareth è un Paese?», al che a Suleiman non resta che chiarire, con quello sguardo mesto ma che fa sorridere: «sono palestinese». Nel frattempo però il tempo passa, e con esso un certo tipo di speranza.

Quale tipo? Quella che lo riguarda sostanzialmente. Ed allora il finale è una presa di coscienza, un messaggio quasi: seduto lì, a sorseggiare un drink, Suleiman osserva qualcosa per l’ultima volta nel film, ossia un gruppo di giovani che ballano sulla pista di una discoteca. Saranno loro a vedere la Palestina? Grazie a loro si smetterà di dire che i palestinesi sono gli unici al mondo a bere non per dimenticare ma per ricordare? Quel sorriso appena accennato del regista potrebbe contemplare la risposta. Oppure no. Fa lo stesso.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

It Must Be Heaven (Francia/Qatar/Germania/Canada/Turchia/Palestina, 2019) di Elia Suleiman. Con Elia Suleiman, Tarik Copti, Kareem Ghneim, George Khleifi, Ali Suliman, Fares Muqabaa, Yasmine Haj, Nael Kanj, Asmaa Azai, Grégoire Colin, Vincent Maraval, Claire Dumas, Antoine Cholet, Eric Cornet, Kengo Saito, Yumi Narita, Stephen McHattie, Raïa Haïdar, Fadi Sakr, Kwasi Songu, Guy Sprung, Nancy Grant e Gael García Bernal. Concorso.

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