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Italiano ultima ruota del carro?

Torna al cinema Giovanni Veronesi, che con il suo L’ultima ruota del carro prova a parlarci di italiani anziché di Italia. Una volta tanto

pubblicato 8 Novembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 07:34

Italia del dopo-boom, quello del ritorno al reale, dopo le feste di un Paese che fino a qualche anno prima celebrava il mito della Dolce Vita. Ernesto (Elio Germano) è uno dei tanti, di quel popolino che faticava a stare appresso ai cambiamenti, repentini, non di rado tragici, in un contesto rispetto al quale era sempre almeno un passo indietro. L’ultima ruota del carro (già Otto von Bismarck alludeva a noi quale «quinta ruota del carro»), appunto, titolo del film e destino di questo figlio di Roma la cui unica colpa, se ve n’è una, è stata quella di mantenersi integro, sebbene costantemente sballottato.

È lui il protagonista di questa parabola generazionale spalmata lungo grossomodo quarant’anni di storia; sua e dell’Italia, quantunque quest’ultima venga saggiamente lasciata sullo sfondo, al massimo accompagnatrice delle vicende che riguardano Ernesto. Uno scenario dal quale non emerge nulla di nuovo, che si sviluppa seguendo un po’ lo stato d’animo del suo protagonista, sempre in cerca di qualcosa eppure in cerca di nulla.

Il suo è un ruolo da gregario nella vita, già scritto dall’infanzia, alla luce di un padre che lo ha cresciuto a scoppole e detrazioni, pronto sempre a ricordargli quanto poco o niente valesse. In tal senso, Ernesto è un vincitore, uno al quale, a quelle condizioni, non poteva certo andare meglio. Veronesi non calca troppo la mano su questo asfissiante rapporto col padre, e fa bene. Fino all’episodio liberatorio, quello che segna il passaggio e che costringe il figlio a diventare uomo, non importa che non sappia nemmeno cosa significhi. Essere uomo.

Il tono non asseconda estremismi di sorta, alternando, come d’abitudine col regista toscano, risate e lacrime, senza mai spingere più di tanto né in un senso né nell’altro. Niente inflessioni grevi, dunque, preferendo ancora una volta restare in bilico tra una propensione e l’altra. Perché sì, ne L’ultima ruota del carro si può sorridere così come ci si può commuovere, ma in nessuno dei due casi si arriva mai sino in fondo. Il ritmo preclude la possibilità di qualsivoglia eccesso, il che è una virtù ed anche un vizio di questa pellicola. Trattandosi di un carattere per certi versi distintivo del cinema di Veronesi, non ci sembra opportuno fare oltremodo le pulci a certe scelte; ma è pur vero che, se da un lato questa verve conferisce una certa compattezza al film, evitando sbavature, dall’altro il non prendersi qualche rischio in più tende lievemente ad appiattire il tutto. Che è poi, quest’ultima fattispecie, una deriva che Veronesi è tra i pochi a sapere eludere, proprio in virtù dell’incedere liscio e pulito del suo modo di raccontare. Paradosso.

Nota di merito va senz’altro riconosciuta ad Elio Germano, che riesce a dotare il piccolo/grande Ernesto di quella dolcezza, di quella spontaneità che riescono a penetrare, reggendo peraltro bene per l’intera durata della pellicola. Ma in fondo bravi tutti: la fragile ma non per questo sottomessa Mastronardi, Ricky Memphis e Maurizio Battista (che da soli reggono l’intera impalcatura comica), nonché gli altri attori i cui nomi li trovate a fondo pagina. Insomma, un bel caso di cast azzeccato, e che in più lavora bene.

Certo, quando ci si para dinanzi un’opera che attraversa un arco di tempo così lungo e che inevitabilmente rievoca certe stagioni della nostra storia, la tentazione di soffermarsi su quanto ha da dire l’autore a riguardo (e come l’ha detto) è forte. Tuttavia siamo del parere che Veronesi si sia servito di certi chiari richiami più per contestualizzare la storia di Ernesto che altro. Non si possono a nostro avviso leggere diversamente certi riferimenti ad un Italietta già consapevole trent’anni fa buoni che «dove voi anna’ senza raccomandazione», o a quella dedita ai “magheggi” politici di partito, degli Hotel Raphaël con lancio di monetine annesso, la cui genesi viene proposta proprio come se a filtrarla fossero gli occhi ingenui e l’esperienza di Ernesto, il quale, bontà sua, più volte ammette di non averci mai capito nulla. Fino all’epopea berlusconiana, i cui bozzetti preparatori già si avvertono in quei frangenti in cui assistiamo anche noi a quanto trasmesso, anche a distanza di anni, su Canale 5, Maurizio Costanzo Show incluso.

Tutte componenti rivolte per lo più, come già chiarito sopra, a completare il quadro, infondendo coerenza e consistenza alla storia che più che conta e da cui in nessun caso ci si discosta, ovvero quella di Ernesto. Un italiano, un romano. Ma soprattutto un uomo, che come tanti suoi concittadini, ne ha viste tante e vissute di più. Senza salvare nessuno o lasciare impresso il suo nome chissà dove. Giusto vivendo.

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