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Jiro Dreams of Sushi: Recensione del documentario di David Gelb

Uno dei documentari più interessanti degli ultimi anni, Jiro Dreams of Sushi ci parla della nobile arte del sushi. Protagonista Jiro Ono, una leggenda vivente. A voi la nostra recensione del film di David Gelb

pubblicato 17 Gennaio 2013 aggiornato 28 Agosto 2020 12:45

C’è un solo modo per abbracciare il delicato progetto di David Gelb. E, checché se ne pensi, ha poco a che vedere con l’amore per il sushi. Certo, gli amanti di tale istituzione culinaria troveranno questo ritratto davvero invitante (perché negarlo?). Tuttavia alla base sono altre le premesse che davvero fanno la differenza.

Perché la potenza di Jiro Dreams of Sushi poggia pressoché interamente su una filosofia, di cui Jiro Ono è espressione vivente. Il proprietario del Sukiyabashi Jiro, così come la sua arte, si fondano su un minimalismo dal sapore nostalgico, quasi che quella stagione così fervida fosse oramai del tutto scomparsa. Non a Ginza, nel quartiere di Ch??, a Tokyo. Dove, dopo più di cinquant’anni, l’ultra-ottantenne Jiro porta ancora avanti la sua attività.

A questo punto dovremmo prontamente scusarci col diretto interessato, visto che definire la sua occupazione come un semplice lavoro è quanto di più distorto si possa dire a riguardo. Lo dice subito, dopo le primissime battute, quando il protagonista dichiara con un’amabilità unica: «dovete letteralmente innamorarvi del vostro lavoro». Aggiungendo, però, che il primo obiettivo è quello di migliorarsi giorno dopo giorno. Perché lui non è un semplice artigiano, bensì uno shokunin; che essenzialmente è altra cosa.

Le diverse profondità e sensibilità linguistiche rappresentano la barriera più impervia da scavalcare al fine di comprendere una cultura estranea alla nostra. La definizione del termine appena citato (shokunin), non a caso, sfugge ad immediate etichette che riescano a contenere la medesima portata del suo significato nella nostra lingua. Come già detto, non si tratta di un semplice artigiano, ma è anche quello. Lo shokunin è colui che, mediante l’esperimento della propria arte, si fa egli stesso manifestazione di un sapere tanto pratico quanto spirituale. Sapere che non si esprime attraverso astruse costruzioni concettuali, bensì attraverso una cultura del fare che è un po’ prerogativa del retaggio nipponico.

Qui sta o cade la corretta percezione della pregevole opera di David Gelb, oltre che dello stesso Jiro Ono. Il sushi, una pietanza così strutturalmente semplice, assurge in sé e per sé quale sintesi perfetta di questa impostazione. Un modo di vivere, anzitutto, che lega in maniera armoniosa più dimensioni esistenziali, nell’ambito di una ricerca basata su un ferreo dualismo di stampo spiccatamente orientale. Il pesce ed il riso, unici due ingredienti di un piatto apparentemente povero, eppure così denso di implicazioni, così come la vita ed il lavoro, due realtà altrettanto banali prese a sé stante ma parimenti fondamentali nell’esistenza di ognuno di noi. Non è perciò sotto la lente della specificità che tali elementi vanno visti, bensì nell’ambito della loro indissolubile unione: così come quella tra riso e pesce forma il sushi, quella tra vita e lavoro diviene vocazione.

L’intera esistenza di Jiro altro non è che questo: un continuo cammino verso la perfezione, mai raggiungibile (“perché non si sa quale sia il suo apice“, afferma il diretto interessato) ma verso cui bisogna tendere incessantemente. A questo l’uomo è chiamato. Una lezione che ha un valore universale, prescindendo da qualunque dimensione contingente. Basti pensare in cosa consiste per Jiro la felicità: nel trovare un buon tonno. Capite? Ci vuol poco a darsi a battute scontate ancorché distratte, ma l’essenza di quanto ci viene trasmesso dal genio in questione è tutta qui. Mentre invece la valenza del documentario tende a spingersi inevitabilmente un po’ oltre.

Affinché certi concetti passino, Gelb appronta un discorso di rara efficacia, la cui forma emana una bellezza quasi estatica. Anzitutto il giovane regista indovina in pieno il tenore tramite cui veicolare il racconto. Una narrazione che si distende mediante una direzione che fa a meno di orpelli, tecnici e non, amalgamando il tutto in maniera pregevole. Coadiuvato da una colonna sonora che vanta nomi del calibro di Tchaikovsky, Mozart, Bach, Richter, ma soprattutto Philip Glass, Jiro Dreams of Sushi rappresenta un esercizio di estetica tanto minimalista quanto impeccabile. Puro racconto, evocativo e d’impatto come solo il cinema riesce ad essere a così tanti livelli.

Cento e passa ore di girato condensate in meno di un’ora e mezza, costruita con una proprietà di linguaggio davvero notevole. A cominciare dalla sua “progressione piramidale”, attuata su un binario doppio. Da un lato il sushi, partendo dalla scelta del pesce, la sua preparazione, per poi passare al riso e la sua rilevanza nell’economia di quel connubio che è poi il risultato finale dell’opera degli artisti di questa pietanza. Dall’altro i componenti del Sukiyabashi Jiro, a partire dal suo indiscusso leader, passando per i figli, i loro propositi, le loro ansie; per poi finire con i più o meno giovani apprendisti, quelli “che per cuocere un uovo devono attraversare un apprendistato di dieci anni“, lasso di tempo indispensabile per apprendere dignitosamente tale arte.

Non mancano alcune sequenze curiose e che forse per questo ci sono rimaste maggiormente impresse, come l’asta del tonno e le susseguenti recriminazioni di alcuni dei compratori (coloro che poi rivendono ai proprietari dei locali) circa il diffuso rincoglionimento delle ultime generazioni: «pensano solo a trovare un lavoro con cui guadagnare un sacco di soldi, così da diventare ricchi e avere tanto tempo libero. Nessuno che veda il proprio lavoro come un mezzo per migliorarsi». Uscite sempre più avulse e lontane da un quotidiano che, in troppe parti del mondo, oramai va sempre più sbarazzandosi di certe sfumature, facendo del tempo libero forzato l’orizzonte più prossimo per una marea di lavoratori e non.

Da qui tutta l’attualità di un film adatto a tutti, riguardoso specialmente del destino di ognuno. Non quello che si subisce, ma che si costruisce, giorno dopo giorno. Contro le influenze esterne di qualunque tipo, partendo da sé stessi anzitutto. Ed anche in questo caso, non le semplici esternazioni, ma le scelte di Jiro ne sono la prova. A dispetto delle tre stelle appioppategli dalla Guida Michelin, il Sukiyabashi Jiro ha mantenuto la stessa rotta che da sempre lo ha contraddistinto: locale piccolo, riservato, e tempi di consumazione consoni. Il sushi va gustato, non trangugiato, e venti portate non sono poche.

Senza mai dimenticare l’attenzione per i dettagli, quelli che, soli, sono davvero in grado di fare la differenza. Conosciamo così un personaggio davvero originale, soffermandoci con discrezione su quanto è riuscito a costruire in oltre cinquant’anni, ossia sé stesso, prima ancora che il suo ristorante. Quest’ultimo non semplicemente estensione di chi lo ha istituito e portato avanti, bensì riflesso di un’interiorità matura e radicalmente interessante.

Essenziale, diretto, senza affatto sacrificare un’apparenza formale elegante e robusta. Questo è Jiro Dreams of Sushi. Un documentario innanzitutto onesto, scevro di soluzioni particolarmente arzigogolate, che in poche battute e scelte di regia riassume lezioni magari tanto ovvie da risultare banali, ma con una freschezza ed una sorta d’ingenuità nondimeno adorabili – come quando a Jiro gli viene chiesto cosa mangia e lui risponde che non si può preparare del buon cibo se non si lavora per sviluppare un palato in grado di distinguere il cibo buono da quello cattivo. Chiudiamo così, con un’aforisma che in realtà apre il film: «È la massima semplicità che conduce alla purezza».

Voto di Antonio: 9

Jiro Dreams of Sushi (USA/Giappone, 2011). Di David Gelb. Con Jiro Ono e Yoshikazu Ono.