Just Don’t Think I’ll Scream, recensione, il malessere di una generazione
L’esordio di Frank Beauvais è uno dei documentari migliori oltre che più significativi degli ultimi anni, specie in questo periodo
Si afferma l’ovvio nell’evidenziare che un film, più o meno qualunque film, visto non semplicemente a distanza di tempo, ma a condizioni differenti, ci parla in maniera diversa. Just Don’t Think I’ll Scream è passato in primis dalla Berlinale dello scorso anno, chi scrive l’ha poi perso a Torino, ficcatosi chissà dove, sebbene preferisca assumermi la responsabilità per non essere riuscito ad infilarlo nel mio personale programma. Com’è come non è, sta di fatto che MUBI lo sta proponendo in questi giorni, occasione dunque per fare ammenda.
Di questo esordio di Frank Beauvais si è parlato parecchio, c’è chi lo considera, a ragione, uno dei migliori documentari del 2019; quello che chiunque però non poteva supporre neanche alla lontana è fino a che punto Just Don’t Think I’ll Scream potesse rivelarsi significativo alla luce del periodo che abbiamo attraversato in questa prima metà di 2020. Non solo perché, di fatto, il film altro non è che un collage d’immagini tratte dai 400 film che il regista ha visto nell’arco di pochi mesi nel 2016, ma perché, tra reale e fittizio, a farla da padrone in questo lavoro, a cavallo tra lettera personale e saggio, sono appunto le parole.
Le numerose sequenze ci scorrono davanti mute; a colmare questo vuoto le considerazioni di Beauvais, il quale racconta di questo suo soggiorno auto-imposto nell’Alsazia, lui parigino, che la sua Parigi ha dovuto/voluto lasciarla dopo una relazione finita non bene. A quarantacinque anni, senza lavoro ma lavoretti, devastato non solo da una fiducia nel mondo e nella vita ai minimi storici, bensì anche da un’attualità incalzante (è periodo di svariati attentati terroristici in tutta la Francia), Beauvais si chiude, anzi, si trincera proprio in questa casa i cui muri sono composti di libri, dischi, CD e DVD nell’ordine di migliaia.
C’è del masochismo in questo ritiro del nostro, che di quella regione, di stampo tradizionale, odia pressoché ogni cosa, lui che da sempre sogna una sorta di rivoluzione, anche se oramai non ci crede più, e forse ha pure dimenticato, almeno in parte, in cosa consistesse. La sua è una generazione venuta a patti con l’indifferenza di un contesto satollo, con un debole per l’attivismo ma al contempo lui stesso individualista; una generazione che si trascina, in cui la cosiddetta maggioranza procede per inerzia, datasi totalmente a quelle forme di totalitarismo dolce, sottile, non semplicemente accettate, ma difese strenuamente, se non addirittura elevate a valori supremi.
Sarebbe interessante, anche se magari deprimente, discutere oggi con Beauvais su cosa ne pensi di questi ultimi mesi. Certo, bisognerebbe chiedergli di fare uno sforzo che forse nemmeno gli compete, perché in Just Don’t Think I’ll Scream non s’atteggia né da sociologo né d’antropologo, però riesce nondimeno a tracciare dei punti salienti rispetto all’epoca in cui vive, con una lucidità preziosa. E, va da sé, non gli si chiederebbe alcunché su virus e affini, bensì proprio in merito a come ha vissuto la reazione delle persone, a tutti i livelli, se il mondo che lo terrorizzava quando tutto sembrava fosse normale oggi genera in lui più ansia oppure la medesima di prima.
Sarebbe bello se magari si cimentasse in qualcosa di analogo rispetto a quanto fatto col suo debutto, dirci dov’è stato, ora che l’isolamento di cui parla in Just Don’t Think I’ll Scream l’ha condiviso col mondo intero, al quale si è dovuto imporre, e che perciò potrebbe non essere medicina come forse lo è stato per lui. Quanti hanno trascorso la loro quarantena affrontando i propri demoni? E nel caso, si sono fortificati in questa lotta oppure ne sono usciti ancora più a pezzi?
Non sono così ingenuo anche solo da pensare, se non addirittura pretendere, che la radicale cinefilia, ossessionata e ossessionante, di Beauvais sia qualcosa di largamente condiviso, nemmeno nella “cinefila” Francia. Eppure Just Don’t Think I’ll Scream racconta un’epoca, isolandone un frammento, per quanto minuscolo, perché nell’anima di ciascuno di noi c’è effettivamente tutto ciò che c’è da sapere, nel bene e nel male. Si tratta poi ovviamente di riuscire a tirarlo fuori, conferirgli un ordine, ed il regista scrive bene, ha una prosa diretta, a tratti leggermente più aulica ma senza mai strafare, evitando di appesantire concetti che debbono colpire invece per la loro immediatezza, talvolta per la loro ferocia.
Ecco, Just Don’t Think I’ll Scream è una cronaca feroce, viscerale. Certo, anzitutto perché profondamente personale, chiaro. Ma non è tutto. Quanta gente, al cinema come altrove, si parla addosso senza di fatto trasmettere alcunché? Frank Beauvais riesce invece là dove tanti hanno fallito, falliscono e falliranno miseramente, ossia dare contezza di una generazione, di un periodo, di un’epoca, che vive già in una sorta di realtà virtuale, che non per forza va equivocata con visori, caschi e tutto l’immaginario cyberpunk che comunque è già tra noi da qualche anno a questa parte.
Cinema come sogno ad occhi aperti, costante, che trascende i singoli film, in quell’unicum che è il loro ricordo; ricordo che molto spesso si mescola con l’esperienza di questo vivere costante, in un qui e ora che sa già di eternità. Un eterno in cui però si rischia di restare impelagati, che ha poco o nulla di trascendente (direi più immanente, ma rischierei di sfociare pericolosamente in un ambito delicato). Per Beauvais è il ripiegare su questa dimensione magari in odio a un’esistenza con cui oramai è difficile o quantomeno doloroso relazionarsi. Quella realtà, se così vogliamo chiamarla, diventata di troppo (in tal senso si ascolti il racconto della morte del padre mentre i due guardavano uno dei film preferiti del figlio regista).
Eppure questo racconto, straziante come solo un excursus interiore può essere, potrebbe persino avere un lieto fine. Just Don’t Think I’ll Scream infatti è anche una sorta di resoconto del regista che si prepara a tornare nell’amata/odiata Parigi; perciò i preparativi, il congestionato trasloco, il liberarsi di tutte quelle cose che gli hanno fatto compagnia ma che al tempo stesso lo hanno tenuto schiavo. L’ultima inquadratura è una panoramica dall’alto di un campo verdeggiante; per alcuni potrebbe trattarsi di una chiusa ingenua, mentre chi scrive la trova efficace, se non poetica almeno ariosa, finanche giusta. Frank è pronto per tornare in quell’altra dimensione, che non è né Paradiso né Inferno. Ma che, semplicemente, ha bisogno anche di lui. Vinto ma non per questo sconfitto.