Justice League: recensione in anteprima
Warner e DC continuano a reiterare una formula che non funziona. Justice League tenta di correggere certe magagne emerse in Dawn of Justice se non fosse che si tratta di vere e proprie tare strutturali di un progetto che a questo punto necessita di un quanto mai provvidenziale reset
Da soli non si va da nessuna parte. Un refrain che torna a più riprese in Justice League, travagliato ultimo film di Zack Snyder, che di fatto ha dovuto condividere, seppur in minima parte, con Joss Whedon, subentrato a cose oramai quasi fatte. La DC lato cinema ha già assaporato il proprio momento di gloria con Wonder Woman (dai critici anglofoni considerato uno dei migliori film del 2017 [!]), perciò ci si presenta all’appuntamento con quest’altro tassello moderatamente sereni; c’è chi addirittura ha spiegato perché, nella peggiore delle ipotesi, Warner potrebbe finanche permettersi di fallire al botteghino a questo giro.
Inizio didascalico che più didascalico non si può, mentre veniamo messi a parte dei singoli membri del gruppo, chi sono, cosa fanno. Al di là del taglio netto rispetto ai 170 minuti inizialmente confermati, già in queste prime fasi emerge il lavoro di maquillage operato da Whedon, tutto di sottrazione; la qual cosa non fa che confermare indirettamente lo stesso limite che aveva già azzoppato gli altri film DC, ovvero la scrittura. Justice League si sforza di essere più diretto, fluido, ma laddove non incespica risulta comunque incerto, privo di quell’identità che non di rado prende a prestito mediante per esempio uno dei leitmotiv che hanno fatto la fortuna del corrispettivo Marvel, ossia l’umorismo.
Alcune delle battute più carine le troviamo già nei trailer, come la risposta di Bruce Wayne circa il suo superpotere o il siparietto con Aquaman; tuttavia, da comprimari quali sono, a tentare di rubare la scena, in alcuni casi riuscendoci, sono proprio quest’ultimo e Flash, passabile proprio nella misura in cui ci mette del suo un Ezra Miller in versione adolescente impacciato, simile allo Spider-Man di Civil War. Ciò che continua a mancare è l’amalgama, e se ne ha parecchio percezione sul finale, quando una voce fuori campo appronta un discorso sulla speranza dal taglio vagamente epico, il quale però chiosa pressoché il nulla che lo ha preceduto.
Un po’ come avvenuto con Man of Steel, è come se si trattasse di clip apposte, bastanti a sé stesse, “altro” rispetto ad un discorso che si presume organico e compatto, sviluppatosi nel corso di un intero film. Ciò che quindi in qualche modo limita i danni muta, nemmeno tanto paradossalmente, in ulteriore difetto; perché sì, non si dubita che una sfoltita fosse indispensabile, senonché, di contro, ti ritrovi con qualche scena madre di troppo che però non giova alla causa. Steppenwolf ed i suoi Parademoni devono impossessarsi di tre scatole per risvegliare la Madre: una è in possesso delle Amazzoni, l’altra si trova ad Atlantide, mentre l’ultima è sul nostro pianeta. La ricerca, se vogliamo, rappresenta la parte più debole, quasi insulsa, tirata via in fretta e furia, giusto per arrivare allo scontro finale.
Ecco, anche qui emerge quest’ansia verso il confronto finale, quello attorno al quale ruota tutto, tanto che ciò che lo precede si limita a fungere da premessa, lunga, a tratti estenuante. Alludere alla presunta alchimia tra i personaggi, al fatto che, insomma, tutto sommato facciano di gran lunga più bella figura rispetto all’accozzaglia raggruppata per Suicide Squad, tende ad essere un po’ come dire a una ragazza che è simpatica, un tipo. Justice League evoca temi grandiosi, qua e là manifestando una seriosità che, per quanto lontana dalle vette espresse in Dawn of Justice, finisce nondimeno col conseguire il risultato opposto a quello auspicato.
Perché sì, come accennato in apertura, si fa leva sull’importanza del gruppo, e, come ravvisato più avanti, si parla di speranza; per il resto ci si limita a reiterare schematicamente i ritornelli che già conosciamo, come Batman che si sacrifica senza calcolo, assumendo dei pericolosi contorni da parodia a questo punto, o la Wonder Woman metacinematografica, consapevole del ruolo che le è stato affidato da Hollywood e dintorni quale rappresentate del mondo femminile, e che adesso è esplicitamente chiamata ad imparare come si fa ad esercitare il ruolo di leader. Si potrebbe addirittura citare la fattispecie di queste tre scatole che, una accanto all’altra, fanno una cosa sola, arma potentissima dinanzi alla quale il semi-trumpiano Steppenwolf se ne esce con un sospetto «praise the unity», ribaltando in chiave mistica l’unità sin lì evocata dal gruppo di supereroi, la quale invece ha più a che vedere col concetto ben più profano di fratellanza e cooperazione.
Ma sono ragionamenti secondari, interpretazioni che non debbono sostituirsi alla ponderazione del film sotto altri aspetti; chi infatti avesse da ridire sul perché ai film Marvel non vengano fatte le pulci sul fronte delle tematiche trattate, ma soprattutto sulle modalità, basterebbe rispondere che, nei casi riusciti, dall’altra parte non si è puntato su certe cose, concentrandosi, in maniera becera quanto si vuole, sull’intrattenimento. Ciascuno a tal proposito dispone di una propria soglia, e quantunque, come già sottolineato, tale componente sia meno invasiva che in precedenza, qualcosa continua a non funzionare.
A corredo vi è uno Snyder il cui estro, quantunque contenuto, si mostra sproporzionato, quasi una posa, e nella scelta di certi brani il cui ricorso è tipicamente snyderiano, e in quei ralenti che eppure a ‘sto giro troverebbero fondamento narrativo nel personaggio di Flash, del quale adottiamo la prospettiva allorché si muove nei vari ambienti, senza contare quegli echi truffaldini à la Nolan già spesi (e male) nel primo Superman. Altro appunto è sul cast: buoni i nuovi, ossia il già citato Miller e Jason Mamoa, mentre Affleck continua a manifestare un palpabile disagio e chi scrive continua a coltivare riserve sulla seppur bellissima Gal Gadot, la cui avvenenza temo abbia contribuito a mettere in secondo piano certe evidenti lacune che la versione originale restituisce in pieno; su Cavill si è già infierito abbastanza, eppure, complice anche il peso che ha Superman nell’economia della trama, qui viene speso più saggiamente.
Justice League rappresenta un insieme di ingredienti che non legano mai del tutto, ma nemmeno brillano particolarmente se presi a sé stante. La sua è una storia che persegue a priori ambizioni che non può permettersi, con quel suo strutturale anelito ad un’epica sin troppo spiccia ed annacquata. Allora lo sforzo diviene insufficiente anche e soprattutto in ragione di questi vizi di forma, ai quali si deve porre rimedio quanto prima, magari ripensando da zero il progetto e facendolo perciò ripartire. Chiedersi se il film sia divertente o meno, per quanto tale quesito appaia affine alla natura del prodotto, resta fuorviante in virtù di un lavoro concepito per funzionare anche su altri livelli, pena venir fuori monco. E la Warner con i film DC sembra stia lavorando un po’ come Frankenstein, aggiungendo parti ad un corpo a cui semplicemente manca la vita poiché privo di anima.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]
Justice League (USA, 2017) di Zack Snyder e Joss Whedon. Con Ben Affleck, Gal Gadot, Ezra Miller, Jason Momoa, Ray Fisher, Henry Cavill, Amber Heard, Amy Adams, J.K. Simmons, Willem Dafoe, Jeremy Irons, Connie Nielsen, Diane Lane e Daniel Stisen. Nelle nostre sale da giovedì 16 novembre 2017.